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“Politici (e) malandrini”

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Il nuovo libro di Enzo Ciconte

“Politici (e) malandrini”

Il nuovo libro di Enzo Ciconte

 

 

Se si potesse associare una frase per consigliare la lettura dell’ultimo libro di Enzo Ciconte, “Politici (e) malandrini” (edito dalla Rubbettino), in quelle 426 pagine sarebbe una famosa frase di Vittorio Alfieri. «Leggere, come io l’intendo, vuol dire profondamente pensare». Pensare che c’è un’organizzazione mafiosa definita ‘ndrangheta che ha un potere immenso, quasi incontrastato, perché è un fenomeno in continua evoluzione. Si trasforma come un mostro, simile alla mitologica Idra di Lerna che quando tagliavi una delle nove teste, ne spuntavano sempre due. Enzo Ciconte spiega nella sua meticolosa conoscenza del fenomeno, essendo uno dei massimi conoscitore delle organizzazioni mafiose, il rapporto pericoloso (e misterioso), come in un patto inossidabile e contiguo tra questa mafia e la politica. Facendo trarre al lettore seri spunti di

riflessione e di grande approfondimento culturale di come gira la quotidianità mafiosa insieme a quella della politica (se così si potrebbe definire). L’autore è stato deputato del vecchio Partito Comunista Italiano alla fine degli anni ottanta ed è docente presso l’Università di Roma Tre e dell’Aquila, dove appunto insegna “Storia della criminalità organizzata”. Nel libro c’è una sequela di fatti cronologicamente riportati a partire dall’ottocento quando si parla dei “panciuti” nella politica ossia quelli che ricevono il rito di iniziazione per il loro ingresso a “Cosa nostra”, ricevendo la “puntura” pronunciando la tipica frase «giuro di essere fedele a cosa nostra. Se dovessi tradire le mie carni devono bruciare come brucia questa immagine». Di solito sono cose che a primo acchito sembrano irreali da vedere solo nei film ma che purtroppo rappresentano uno spaccato reale e quotidiano.

Si parla del primo consiglio comunale sciolto per mafia, accaduto al consiglio comunale di Reggio Calabria nel 1869 per passare alle varie vicissitudini del salto sul carro del vincitore dopo la caduta del fascismo, tecnica che ancora oggi è di moda. Basti seguire le consorterie mafiose che si sono annidate al Nord, dove pericolose famiglie hanno stretto rapporti con importanti amministratori regionali di ogni colore politico che avesse la gestione del potere. Tutti compresi, dal centrodestra, al centrosinistra persino con quello che ce l’avevano duro (sic). È un modi di operare simile in ogni contesto, un rapporto

drammatico, perfido e freddo, badando agli interessi economici propri, per così dare un’impronta ben marcata senza guardare in faccia a nessuno, incutendo paura, timori ed intimidazioni pur di ottenere i propri scopi. L’analisi di Enzo Ciconte è anche tutto questo. E lo fa senza tralasciare nulla, senza escludere ogni particolare con semplicità e durezza allo stesso tempo. La storia è testimone e lui trae dalla storia un’opera di rilievo straordinaria che fa sì di un libro, un documento da tenere sempre con se. Da non far mancare in qualsiasi libreria. Come un cimelio che serva a far capire anche (e soprattutto) alle nuove generazioni che la ‘ndrangheta insieme alla politica, è il soffocamento della libertà e della libera espressione sociale ed economica. 

Molto toccante ed allo stesso tempo apre un dibattito serio che spero nelle scuole possa essere attuato, quando il presidente del Centro comunitario Agape Mario Nasone riferisce alla Commissione bicamerale antimafia nella XIII legislatura le parole di ragazzo: «Io da grande voglio fare il mafioso, voglio uccidere tutti i giudici e, se capita, pure qualche carabiniere e poliziotto perché ci stanno antipatici ed è un lavoro che rende, perché più uccidi e più soldi fai e più rompiscatole togli dai piedi. In questo lavoro non c’è mai disoccupazione, c’è sempre un lavoro se ci sai fare, se stai zitto e se hai fortuna». Enzo Ciconte spiega (ed insegna) con il suo libro, che questo fenomeno e questi “ragazzi” possono avere “fortuna” diversamente. Una fortuna basata sull’onestà e sulla cultura onesta della legalità.

(GL)