Condannati tre medici dalla Corte di Cassazione con l’accusa di omicidio colposo
di MARIA RITA CURINGA
Operare un malato terminale è reato
Condannati tre medici dalla Corte di Cassazione con l’accusa di omicidio colposo
Il caso riguarda tre medici dell’ospedale San Giovanni di Roma che, nel dicembre 2001, avevano operato una donna di 43 anni affetta da un tumore al pancreas allo stadio terminale. La Corte di Cassazione nella sentenza 13746 della IV Sezione penale si è pronunciata affermando che «il prioritario profilo di colpa in cui versavano gli imputati è stato evidenziato dalla stessa Corte nella violazione delle regole di prudenza, applicabile nella fattispecie, nonché delle disposizioni dettate dalla scienza e dalla coscienza dell’operatore. Nel caso concreto attese le condizioni difficili indiscusse ed indiscutibili della paziente – non più operabile o quanto meno inutile proprio perché in una fase terminale della malattia – non era possibile attendersi dall’intervento un beneficio per la salute e/o un miglioramento della qualità della vita. I chirurghi pertanto avevano agito in dispregio al Codice deontologico che fa divieto di trattamenti informati a forme di inutile accanimento diagnostico-terapeutico». Viene riconosciuto come un vero e proprio accanimento terapeutico, ossia «l’esecuzione di trattamenti di documentata inefficacia in relazione all’obiettivo, – così viene espletato dal Comitato Nazionale per la Bioetica – a cui si aggiunga la presenza di un rischio elevato e/o una particolare gravosità per il paziente con un’ulteriore sofferenza, in cui l’eccezionalità dei mezzi adoperati risulti chiaramente sproporzionata agli obiettivi della condizione specifica», un ulteriore dolore è stato dato al paziente nonostante si trovasse già in uno stato terminale della patologia. I medici operando un malato terminale non solo sono stati accusati di omicidio colposo, ma hanno violato il proprio codice deontologico. La condanna è stata di un anno di reclusione per il chirurgo Cristiano Huscher, dieci mesi per Carmine N. e otto mesi per Andrea M., ma proprio perché trascorsi sette anni dalla morte della donna il reato è caduto in prescrizione.
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