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La responsabilità civile dei magistrati e le riforme truffa

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Nel libro scritto da Antonio Giangrande, “IMPUNITOPOLI, LEGULEI ED IMPUNITA'”, un capitolo è dedicato alla responsabilità civile dei magistrati

La responsabilità civile dei magistrati e le riforme truffa

Nel libro scritto da Antonio Giangrande, “IMPUNITOPOLI, LEGULEI ED IMPUNITA'”, un capitolo è dedicato alla responsabilità civile dei magistrati

 

 

Nel libro scritto da Antonio Giangrande, “IMPUNITOPOLI, LEGULEI ED
IMPUNITA'”, un capitolo è dedicato alla Responsabilità Civile dei
magistrati. Su questo Antonio Giangrande, il noto saggista e sociologo storico che ha

pubblicato la collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”,
ha svolto una sua inchiesta indipendente. 

La responsabilità civile dei magistrati e le riforme truffa

Negli ultimi 50 anni si valutano 5 milioni di cittadini vittime di errori
commessi dai magistrati. Responsabilità civile dei magistrati? 7 casi
accertati in 26 anni. Tanto poi paga l’assicurazione con polizza del costo
di 150 euro circa l’anno. Il filtro posto dalle toghe contro le toghe
funziona. Ecco i dati dell’avvocatura generale dello Stato, aggiornati al
febbraio 2014. Dimostrano che il sistema sanzionatorio non funziona. Dal
1988, quando entrò in vigore la legge Vassalli che (in teoria) avrebbe
dovuto sistematizzare la normativa alla luce di quanto i cittadini avevano
richiesto a gran voce con il referendum abrogativo dell’anno precedente,
sono state proposte in tutto 410 cause civili nei confronti di altrettanti
magistrati, ritenuti «responsabili» di una qualche colpa grave da cittadini
incorsi in un procedimento giudiziario.

Secondo un calcolo compiuto dall’Eurispes nell’arco degli ultimi
cinquant’anni sarebbero 5 milioni gli italiani vittime di svarioni
giudiziari: dichiarati colpevoli, arrestati e solo dopo un tempo più o meno
lungo, rilasciati perché innocenti. Un dato che al ministero dl Giustizia
non confermano, e che è stato ricavato da un’analisi delle sentenze e delle
scarcerazioni per ingiusta detenzione nel corso di cinque decenni. Ci si
arriva con un’interpretazione ampia ma corretta di “errore giudiziario”, che
in senso stretto si verifica quando, dopo i tre gradi di giudizio, un
condannato viene riconosciuto innocente in seguito a un nuovo processo,
detto di revisione. Sui giornali si parla di storie di uomini detenuti per
molti anni ma innocenti. Gente del sud, dove l’errore giudiziario è più
frequente del doppio rispetto al resto d’Italia (statistica evinta dai
risarcimenti, riconosciuti nel 54% dei casi da giudici delle procure del
Meridione). Ma la macchina della giustizia s’inceppa a ogni curva della
penisola: i dati “freschi” dell’ultimo rapporto Eurispes sul processo penale
diagnosticano una crisi strutturale del sistema: il 75% dei procedimenti
fissati per il dibattimento vengono rinviati. Così si dilata il tempo
d’attesa per la giustizia, producendo un altro pericolo per la tenuta dello
Stato di diritto: in carcere abitano più presunti innocenti che detenuti
condannati con pena definitiva. Per la Costituzione, la presunzione
d’innocenza accompagna l’imputato fino alla sentenza definitiva.

“Quando si è chiusi dentro per cose che non hai mai fatto, il tempo ti
mangia lo stomaco. Provi a fare una vita normale, ma ci vuole forza. Sai di
essere innocente, e aspetti convinto che prima o poi qualcosa accada”. Dal
’92 c’è la possibilità per gli innocenti ritenuti colpevoli e poi rimessi in
libertà, di chiedere e ottenere un risarcimento per ingiusta detenzione.
L’uomo innocente ha una speranza da coltivare, che il tempo consuma giorno
dopo giorno come il moccolo di una candela. E se la storia dell’errore
giudiziario potrà essere risarcita in sede civile, questo finale è vietato a
chi è ingiustamente incolpato e poi prosciolto. Nel nostro ordinamento non
esiste una norma che “indennizza l’ingiusta imputazione. Al contrario andrà
risarcito chi è stato detenuto per errore, anche nel caso di custodia
cautelare”. Lo ha confermato la sentenza della Cassazione del 13 marzo 2008,
sollecitata dalla richiesta di risarcimento di un professionista accusato di
bancarotta fraudolenta e poi assolto. Nel “giro” si seppe
dell’incriminazione, e gli affari del tizio andarono in malora.

Si stima che, dal 1988, circa 50 mila persone siano state vittima di
ingiusta detenzione e errore giudiziario, e che dal 1991 lo Stato abbia
risarcito per circa 600 milioni di euro questi innocenti – viene spiegato a
tempi.it dal presidente dell’Unione Camere Penali, Valerio Spigarelli
Eppure, dal 1988, su 400 cause presentate per la responsabilità civile dei
magistrati, solo 4 magistrati sono stati condannati. Com’è possibile e cosa
ne pensa? La somma delle vittime e dei risarcimento è al ribasso. Si tenga
conto che per l’ingiusta detenzione non sempre lo Stato concede il
risarcimento, anche a fronte di una sentenza di assoluzione totale dell’ex
detenuto. Purtroppo, anche la legge attuale sulla responsabilità civile è
fatta male: c’è un filtro preliminare alle cause, di cui si occupa
ovviamente la magistratura stessa. La legge oggi prevede la responsabilità
solo per dolo o colpa grave, cioè solo per gravissimi casi. Restano esclusi
ad esempio tutti gli errori di interpretazione delle prove o delle leggi,
per cui se anche ci fosse un magistrato che compisse un errore clamoroso,
come inventarsi una legge, paradossalmente non avrebbe responsabilità
civile.

Entriamo nel mondo degli insabbiamenti e dell’impunità. Adesso andiamo a
“mettere il naso” in casa dei magistrati: il Csm, Consiglio superiore della
magistratura. Il Csm si occupa anche di sanzionare disciplinarmente i
magistrati che violano le regole e la legge. Una sorta di “organo interno”
per i “colleghi che sbagliano”, scrive “The Frontpage”. Vediamo dal sito del
Csm cosa prevede l’azione disciplinare. La legge ha introdotto, infatti,
l’applicazione del criterio tale crimen talis poena, come conseguenza
doverosa della tipizzazione degli illeciti.

Le varie sanzioni previste dalla legge sono:

a) l’ammonimento, che è un richiamo all’osservanza dei doveri del
magistrato;

b) la censura, che è una dichiarazione formale di biasimo;

c) la perdita dell’anzianità, che non può essere inferiore a due mesi e non
superiore a due anni;

d) l’incapacità temporanea a esercitare un incarico direttivo o
semidirettivo, che non può essere inferiore a sei mesi e non superiore a due
anni;

e) la sospensione dalle funzioni, che consiste nell’allontanamento dalla
funzioni con la sospensione dello stipendio ed il collocamento fuori dal
ruolo organico della magistratura;

f) la rimozione, che determina la cessazione del rapporto di servizio.

Vi è poi la sanzione accessoria del trasferimento d’ufficio che il giudice
disciplinare può adottare quando infligge una sanzione più grave
dell’ammonimento, mentre tale sanzione ulteriore è sempre adottata in taluni
casi specificamente individuati dalla legge. Il trasferimento d’ufficio può
anche essere adottato come misura cautelare e provvisoria, ove sussistano
gravi elementi di fondatezza dell’azione disciplinare e ricorrano motivi di
particolare urgenza. Secondo l’Anm, l’Associazione nazionale magistrati,
l’Italia sarebbe tra i primi posti a livello europeo in termini quantitativi
di provvedimenti disciplinari, con 981 casi in nove anni dal 1999 al 2008.
Il dato viene confortato dalla ricerca del CEPEJ che dice che il numero
delle sanzioni disciplinari applicate ogni 1000 magistrati in Italia è 7,5.
Al secondo posto dopo l’Austria con un fattore 8. A parte che questo
significa che i nostri magistrati sono quelli che a questo punto sbagliano
più di tutti, il CEPEJ non dice il resto. Così come furbescamente non lo
dice l’Anm. E noi adesso lo diremo. Siamo cattivelli. Lo stesso rapporto
dell’Anm dice all’interno (badando bene da non riportare il dato nei
comunicati stampa) che sì, è vero che il Csm ha vagliato 981 posizioni in
nove anni, ma di queste le condanne sono state solo 267 (il solo 27%).
Praticamente solo tre magistrati su dieci sono stati “condannati” dal Csm.
Già questo dovrebbe far ridere o piangere a secondo il punto di vista. Ma
non finisce qui.

Di quei 267 condannati dal Csm:

a) 157, quasi il 59%, sono stati condannati alla sanzione minima
dell’ammonimento (vedi capo a dell’elenco dei provvedimenti disciplinari);

b) 53, il 20% circa, alla censura (vedi capo b dell’elenco dei provvedimenti
disciplinari);

c) 1 solo, lo 0,4 % circa, alla incapacità (temporanea) delle funzioni
direttive (vedi capo d dell’elenco dei provvedimenti disciplinari);

d) 9 soltanto, il 3% circa, sono stati rimossi (vedi capi e-f dell’elenco
dei provvedimenti disciplinari);

Il resto sono al capo c o semplicemente trasferiti d’ufficio. Ma l’Anm,
anche se i dati sono sconfortanti, non la dice tutta. Dagli studi di
Bianconi e Ferrarella sui dati del 2007 e del 2008 esce un dato a dir poco
“offensivo” per il comune senso della giustizia. Prima di giungere sul
tavolo di Palazzo dei Marescialli, sede del Csm, la “pratica disciplinare”
passa per altre vie. L’esposto di chi vi ricorre viene presentato alla
Procura generale presso la Corte di Cassazione che vaglia la posizione e se
ravvisa fondati motivi nell’esposto passa la pratica al Csm, che poi prende
l’eventuale provvedimento. Bene, anzi male: nel 2007 la Cassazione ha
ricevuto 1.479 esposti e ne ha passati al Csm solo 103, poco meno del 7%.
Stessa musica nel 2008. Dei 1.475 fascicoli presentati in Cassazione, solo
99 passano al Csm, circa il 7%. Quindi prendere ad esempio i dati del CEPEJ
sic et simpliciter è improprio, per due motivi: se i dati fossero analizzati
(e non lo sono) sulla base del rapporto tra fascicoli aperti e condanne, il
risultato sarebbe impietoso per l’Italia; secondo: all’estero non esistono
sanzioni disciplinari come l’ammonimento o la censura, bensì si passa dalla
sanzione di rimozione in alcuni paesi (inclusa una sanzione pecuniaria
rilevante e il pagamento dei danni morali e materiali alle vittime) sino
alla condanna in carcere in alcuni altri. Ma non è ancora finita. Il periodo
1999-2008 è stato un periodo “di comodo” perchè il meno peggiore, e inoltre
i numeri non sarebbero veritieri per come riportati dall’Anm. Secondo
un’analisi di Zurlo, mai contraddetta, i casi vagliati dal Csm dal 1999 al
2006 sono stati 1.010, di cui 812 sono finiti con l’assoluzione e solo 192
con la condanna (il 19% circa).

Di queste “condanne”:

– 126 sono stati condannati con l’ammonimento (circa il 66%!);

– 38 sono stati condannati con la censura (circa il 20%);

– 22 sono stati condannati con la perdita da 2 mesi a due anni di anzianità
(circa l’11%);

– 6 sono stati espulsi dall’ordine giudiziario (il 3%);

– 2 sono stati i rimossi (l’1%);

Ora, che cosa si evince? Una cosa semplice. Un magistrato, specie
inquirente, può consentirsi quello che vuole e commettere ogni tipo di
errore o abuso, tanto cosa rischia?

Vediamolo in numeri semplici:

– oltre 9 volte su 10 può contare sul fatto che l’esposto presentato contro
di lui presso la Procura generale della Cassazione non venga passato al Csm;

– qualora anche passasse al vaglio del Csm può contare sul fatto che dalle 7
alle 8 volte su 10 verrà assolto dal Csm stesso;

– qualora anche venisse condannato dal Csm rischierebbe 9 volte su 10 solo
un “tirata d’orecchie” o “una lavata di capo”.

Insomma ha solo dalle 7 alle 8 possibilità su mille di venire cacciato dalla
magistratura, senza contare che per lui le porte del carcere non si
apriranno mai. Potremmo dire: ho visto giudici trattati con così tanto
riguardo che voi normali cittadini non potreste nemmeno immaginarvi.

Quanto alla responsabilità civile, alias il rischio di sanzioni
disciplinari, per gli esposti presentati contro i magistrati è previsto un
filtro preventivo della Procura generale presso la Corte di cassazione. Tra
il 2009 e il 2011, sempre sui circa 9.000 magistrati ordinari in servizio,
alla Procura generale sono pervenute 5.921 notizie di illecito, di cui 5.498
(il 92,9%) sono state archiviate. Ciò vuol dire che solo il 7,1% delle
denunce è arrivato davanti alla sezione disciplinare del Csm. Che strano…

9. E la responsabilità civile?

Quanto alla responsabilità civile dei magistrati, in teoria, ci sarebbe la
Legge n. 117/1988, voluta dall’allora ministro della Giustizia, Giuliano
Vassalli, che stabilisce un limite di 2 anni per l’esercizio dell’azione;
prevede un filtro di ammissibilità per i ricorsi e attribuisce allo Stato la
possibilità di rivalersi, per i danni liquidati a risarcimento di un errore
giudiziario, sullo stipendio del magistrato colpevole (con il tetto massimo
di 1/3). Stefano Livadiotti, autore del libro Magistrati l’ultracasta, ci fa
notare come, in ossequio a tale Legge, dal 1988 al 2011 in Italia siano
stati presentati solo 400 ricorsi (in 23 anni!!!) per risarcimento danni da
responsabilità dei giudici. Di questi, il 63% sono stati dichiarati
inammissibili; il 12% sono in attesa di pronuncia sull’ammissibilità; il
16,5% sono in fase di impugnazione di decisione di inammissibilità e solo
l’8,5% sono state dichiarate ammissibili. Di questo 8,5%, vale a dire di 34
ricorsi, 16 sono ancora pendenti e 18 sono stati giudicati: lo Stato ha
perso solo 4 volte, pari all’l,1% dei già pochissimi ricorsi presentati.

10. Da zero a uno: meno di 0,5.

Dulcis in fundo. Il World Justice Project è un’organizzazione non profit,
indipendente, che ogni anno, al pari della Commissione europea, stila un
indice, denominato «Rule of Law Index», di valutazione dell’aderenza del
sistema giudiziario degli Stati alle regole del diritto. In particolare, le
valutazioni sono svolte sulla base di 4 parametri: l’affidabilità, la
credibilità e l’integrità morale dei giudici; la chiarezza e la capacità
delle Leggi di garantire i diritti fondamentali, tra cui la sicurezza di
persone e cose; il grado di accessibilità, efficienza ed equità del
processo; la competenza e l’indipendenza dei magistrati e l’adeguatezza
delle risorse messe a loro disposizione. I punteggi per gli Stati sono
compresi in un range che va da zero a uno. Per nessuno dei 4 indicatori
l’Italia supera lo 0,5, eccezion fatta per l’adeguatezza delle risorse… Se
la qualità, l’indipendenza e l’efficienza della giustizia giocano un ruolo
fondamentale nel riportare fiducia negli Stati e ritornare a crescere, come
ci ha detto il commissario Reding, rimbocchiamoci le maniche: lavoriamo per
migliorarla. Con la raccolta delle firme, ma anche, in parallelo, dando
veste normativa alle proposte di riforma della giustizia avanzate dalla
commissione dei saggi voluta, prima della formazione del governo Letta, dal
presidente Napolitano. Dipende solo da noi.

Magistratura italiana: verità e omissioni. L’Associazione Nazionale dei
Magistrati ha pubblicato sul proprio sito il documento “La verità
dell’Europa sui magistrati italiani” basato su dati raccolti dalla ANM e
parametrati su quelli della Comunità Europea. Un rapporto talmente lacunoso
da essere sospetto. Ecco perché, scrive “Agora Vox”. La Costituzione
italiana assegna alla Magistratura il privilegio dell’autogoverno, cosicché
essa si autogestisce senza rispondere a nessun altro che non a se stessa.
Gestione del personale, organizzazione del lavoro, retribuzioni e rendiconti
dei costi sono opzioni autonome prese dal Consiglio Superiore della
Magistratura e fuori dal controllo dei cittadini.

Chi giudica i giudici? Nessuno a quanto pare, perchè non sono trasmesse le
notizie dei procedimenti a carico. Il Consiglio Superiore della
Magistratura, nella seduta del 28 settembre 1995, ha approvato la circolare
in oggetto, (CSM. Circolare n. 13682 del 5 ottobre 1995) che di seguito si
riporta:

“Con deliberazione n. 151/91 in data 13 gennaio 1994 il Consiglio Superiore
della Magistratura ha richiesto ai Procuratori Generali ed ai Procuratori
della Repubblica:

a) di dare immediata comunicazione al Consiglio, con plico riservato al
Comitato di Presidenza, di tutte le notizie di reato nonché di tutti gli
altri fatti e circostanze concernenti magistrati che possono avere rilevanza
rispetto alle competenze del Consiglio;

b) prescindendo dall’obbligo di informazione previsto dall’art. 129 disp.
att. c.p.p. di informare di loro iniziativa il Consiglio, oltre che dei
fatti cui il procedimento si riferisce e del suo inizio, anche del suo
svolgimento, nelle varie fasi e nei diversi gradi, salvo che sussistano e
vengano comunicate ragioni che possono rendere inopportuna la immediata
comunicazione, per il positivo sviluppo delle indagini e/o per la sicurezza
delle persone;

c) di trasmettere di loro iniziativa i provvedimenti più rilevanti e quelli
conclusivi nelle diverse fasi e nei vari gradi dei procedimenti e dei
processi a carico di magistrati.

Con la deliberazione in data 17 maggio 1995, concernente lo svolgimento di
ispezioni ed inchieste ministeriali, il Consiglio ha ribadito il suo
costante orientamento sul punto della non opponibilità in linea di principio
del segreto investigativo e della rimessione alla valutazione del magistrato
procedente della sussistenza di specifiche ragioni per il mantenimento del
segreto anche nei confronti degli organi titolari del potere-dovere di
vigilanza.

Si sono dovute constatare notevoli difficoltà di adempimento da parte di
numerosi uffici. Talora sono del tutto mancate le dovute comunicazioni ed il
Consiglio ha dovuto prendere conoscenza attraverso la stampa di procedimenti
riguardanti magistrati, addirittura già pervenuti alla conclusione della
indagine preliminare.

Quasi mai gli uffici del pubblico ministero provvedono ad una informativa
sui fatti cui il procedimento si riferisce, né trasmettono di loro
iniziativa gli atti conclusivi delle fasi e gradi del procedimento, né i
provvedimenti di misura cautelare a carico di magistrati. Quasi sempre gli
uffici trasmettono elenchi cumulativi di procedimenti privi di indicazioni
utili al Consiglio.

Accade anche che le comunicazioni al Consiglio non siano nel medesimo tempo
fatte ai titolari della azione disciplinare, con evidente pregiudizio per
l’esigenza di pronta informazione del Ministro di Grazia e Giustizia e del
Procuratore Generale della Repubblica presso la Suprema Corte di Cassazione.

Tale stato di cose impedisce al Consiglio di svolgere le proprie funzioni e
si traduce in uno spreco di attività di comunicazione, richiesta,
sollecitazione, ecc..”

Chi giudica i giudici? Si chiede Enzo Rosati su “Panorama”. Meglio di
qualsiasi convegno, meglio di ogni polemica tra politici e magistrati, la
realtà, se conosciuta, apre gli occhi all’opinione pubblica su come funziona
la giustizia in Italia. E cioè male. Un solo lato positivo: molti hanno
potuto rendersi conto dell’esistenza e dell’importanza di vari, differenti e
stavolta antagonisti ruoli e livelli di indagine e giudizio anche in
un’inchiesta all’inizio, prima dell’arrivo in tribunale. Procura, polizia
giudiziaria, giudice delle indagini preliminari, tribunale del riesame.
Ognuno ha giocato la sua parte, e questa è stata evidenziata, analizzata,
sviscerata. Finora agli occhi dell’opinione pubblica esisteva in pratica una
verità: quella dei pubblici ministeri, cioè della procura. Dell’accusa. Un
indagato diventava quasi automaticamente un colpevole. Un indagato messo in
galera, poi, un colpevole doppio, perché il carcere in nessun altro modo era
(e purtroppo è) percepito se non come l’anticipo della “giusta” pena.
“Giusta” sulla base delle indiscrezioni fatte filtrare dalle stesse procure
e dalla polizia giudiziaria. Un circuito perverso, è stato detto inutilmente
mille volte; la condanna morale e materiale emessa non da un giudice ma da
una parte in causa. Quanti si ricordano della presunzione d’innocenza, che
nessuno può essere dichiarato e considerato colpevole prima dei tre gradi di
giudizio? Quanti tra la gente comune sanno che anche l’operato di una
procura è soggetto alla verifica di un gip e di un tribunale del riesame?
Non è certo la prima volta che un’inchiesta viene sconfessata, una sentenza
ribaltata. Non raramente si è assistito a un contrasto così forte a palese
sui fondamenti stessi di come si debba condurre un’indagine, di come si
possa mettere in carcere una persona o semplicemente additarla al pubblico
sospetto. È evidente che qualcuno ha sbagliato. La procura? I carabinieri?
Il gip? Il Tribunale del riesame? Può capitare. Ma che cosa suggerirebbe la
logica? Che chi sa di non disporre di prove e indizi certi per accusare una
persona di un reato si rimetta al lavoro per capire gli errori, coprire le
lacune o, se è convinto di ciò che fa, andare avanti. Ma soprattutto che
taccia. Non per punizione, ma perché lo impongono l’etica professionale, il
dovere d’ufficio, il rispetto degli altri e il semplice buon senso. «Non
commentiamo, non rilasciamo dichiarazioni, proseguiamo il nostro lavoro».
Ottima idea. Smentita 24 ore dopo da una raffica di interviste. E che
interviste. 1) far capire che il gip è forse troppo giovane ed esuberante, e
per questo «non ha dato adeguatamente conto del lavoro dei carabinieri»; 2)
che la procedura del Tribunale del riesame «è del tutto nuova»; 3) che «a
forza di dubbi finiremo per dubitare che un delitto ci sia stato. Meno male
che abbiamo prove incontestabili che ci sia un moti. Mi scuso della battuta
macabra, però…». Nomi, persone, vite private. Tutto in piazza. E non per
il lavoro della stampa; no, con il sigillo di magistrati che forse pensano
di risolvere così contrasti e vendette interne. Perché proprio questo si
intuisce dietro il profluvio di dichiarazioni, di allusioni, di «non mi
sembrerebbe generoso», di «non vorrei dirlo», di «non mi faccia fare nomi».
E lasciamo stare criminologi e psichiatri vari, con la verità in tasca da
settimane: la loro unica scusante è che non sono pubblici ufficiali. Il
problema ora è: qualcuno pagherà per gli errori? Chi è ancora in grado di
risolvere credibilmente le indagini? Certo, questi contrasti dimostrano che
la magistratura ha una dialettica al proprio interno e ciò può essere
considerato una garanzia per i cittadini. Purtroppo una sfilza di precedenti
dimostrano che la situazione della giustizia non è rassicurante. C’è dunque
qualcosa che non va. Senza considerare i processi vip, quelli ai politici, è
la giustizia che riguarda la gente comune che non va. Ma i magistrati, come
categoria (anzi, come corporazione), continuano ad autoassolversi. Non
accettano riforme, non accettano di essere giudicati, se non da loro stessi.
Ma come si vede i giudici sbagliano, e dunque il nodo è inesorabile: chi
giudica i giudici?

Chi sbaglia paghi: anche i giudici si adeguino, scrive Marco Ventura su
“Panorama”. In tutti i settori della vita pubblica occorre una nuova
rivoluzione che metta al centro il principio della responsabilità e il
contrappeso dei poteri. Chi controlla i controllori? Gli arresti e le
inchieste ai vertici della Guardia di Finanza offrono una risposta semplice:
la magistratura. Ma chi controlla i magistrati? Qui la risposta diventa più
complessa, perché non è risolutivo che a controllare i magistrati siano
altri magistrati. Le toghe formano una casta o corporazione che dietro lo
scudo dell’indipendenza nasconde una struttura e meccanismi di potere
politico-correntizio che con l’esercizio della “giustizia” hanno poco a che
vedere. Intanto, infuria la polemica per l’inaspettato “sì” a un emendamento
leghista alla Camera dei deputati che introduce la responsabilità civile dei
magistrati, equiparandoli a tutti gli altri cittadini nell’obbligo di
risarcire le vittime degli errori commessi , nel loro caso per “violazione
manifesta del diritto” oppure con dolo o colpa grave. Una norma che sarebbe
di civiltà, e in linea con un’esplicita e grave condanna europea nonché col
referendum che nel 1987 consegnò alle urne la volontà dell’80.2 per cento di
italiani favorevoli al principio che “chi sbaglia paga” anche per i giudici,
e se non cadesse in coda alla ventennale polemica sull’uso strumentale,
politico, della giustizia. Che il dibattito sia inquinato dall’attualità
dello scontro politico è provato non soltanto dalla ormai pluridecennale
querelle berlusconiana, ma dall’imbarazzo di Matteo Renzi che il 27 ottobre
2013 lanciò la riforma della giustizia portando a esempio “la storia di
Silvio”. Che non era Silvio Berlusconi ma Silvio Scaglia, patron di Fastweb
che noleggiò un aereo privato per rientrare in Italia e spiegare la propria
posizione ai giudici che lo indagavano, ma finì in carcere innocente per 3
mesi, più 9 ai domiciliari. Oggi Renzi dissente dalla responsabilità civile
per i magistrati, dall’Asia fa sapere che la norma sarà ribaltata al Senato.
Cioè, la riforma può aspettare. L’eguaglianza fra i cittadini anche. Ma il
problema è più vasto di quello che può sembrare.

Chi controlla i controllori? Questo è il punto. Interrogativo che si pone
per qualsiasi posizione “di controllo”. La parola chiave è proprio
“controllo”. Nelle società di cultura anglosassone il metodo applicato alla
formazione delle istituzioni e alla giurisdizione è quello che risale a
Montesquieu e va sotto il nome di “checks and balances”, ossia “controlli e
contrappesi”. È il principio per cui il sistema non riserva a alcun potere
una licenza assoluta, incontrollabile e incontrollata. Il succo della
democrazia, in paesi come la Gran Bretagna o gli Stati Uniti, sta proprio
nel contrappeso tra poteri che si controllano a vicenda. In Italia lo
sbilanciamento è sotto gli occhi di tutti e insieme allo strapotere della
magistratura (che giudica e sanziona se stessa in termini di carriera e
procedimenti disciplinari), emerge il problema della effettiva indipendenza
e credibilità. Non basta che un magistrato che ha esagerato nel disprezzo
delle regole sia sottoposto a vaglio disciplinare. Occorre che i controllori
siano anch’essi controllati e al di sopra di ogni sospetto. La politica deve
riconquistare dignità e autorevolezza. Vanno superati dogmi inattuali e
smentiti dai fatti (in ultimo dall’inchiesta sul Mose che ha coinvolto il
sindaco Pd di Venezia) riguardo a una supposta e inesistente “superiorità
morale della sinistra”. Bisogna che accanto a un’effettiva applicazione del
principio del “checks and balances” si affermi un altro principio, quello
dell'”accountability”. Cioè della verifica. I controllori sono gli
insegnanti nelle scuole o professori nelle Università? Bene, chi li valuta?
Chi ne controlla i risultati? Chi tiene l’inventario dei risultati concreti
e misurabili? Per esempio, qual è il numero di laureati di quella Università
che trovano lavoro e ottengono un successo? Qual è il numero di diplomati di
un certo istituto che ha conseguito la laurea, e la specializzazione, e il
dottorato? E se i controllori sono i super manager di aziende pubbliche,
potrà mai esserci una relazione diretta tra la carriera e i risultati anche
nel loro caso, o conferme e siluramenti dipenderanno ancora una volta dalla
rete di amicizie e dai clan politici? Nella pubblica amministrazione, quando
si passerà dal concetto dei premi come parte integrante e automatica dello
stipendio, a quello di “premio” realmente selettivo e ponderato, fondato sul
conseguimento di obiettivi verificati? In tutto il mondo, specialmente nelle
compagnie private, vige il principio dei risultati da conseguire. Si fissano
gli obiettivi, a posteriori si valuta se siano stati centrati. Altrimenti
non si viene pagati, o addirittura si viene “fired”, licenziati. Non
rinnovati. Forse appartiene a questa mentalità anche la sanzione che
peserebbe di più sui pubblici funzionari infedeli: la perdita del diritto
alla pensione. Se mai il processo sancirà che un reato è stato commesso,
perché i pubblici funzionari dovrebbero conservare il diritto alla pensione
visto che loro per primi hanno tradito il loro ruolo? Controlli e
contrappesi. Verifica dei risultati. Premi e sanzioni. A quando la
rivoluzione culturale? Gli italiani favorevoli alla responsabilità civile
dei giudici.

Un sondaggio rivela come l’87% vuole che i magistrati paghino per i propri
errori, scrive Arnaldo Ferrari Nasi su “Panorama”. Il governo è stato
battuto a favore di un emendamento che modifica l’articolo 2 della legge
117/88 sul risarcimento dei danni causati nell’esercizio delle funzioni
giudiziarie. Cos’è la 177/88? E’ la cosiddetta Legge Vassalli sul
“risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie
e responsabilità civile dei magistrati”. Comporta che, al pari di altre
professioni, i magistrati possano rispondere risarcendo il danno qualora
compiano un atto con dolo o colpa grave, parificando la loro responsabilità
a tutti gli impiegati civili dello Stato. In caso di colpa semplice o errore
è lo Stato a risarcire le vittime. Una legge che, quando promulgata, venne
giudicata troppo morbida da diverse parti e, soprattutto, che travisava i
risultati del referendum dell’anno precedente. Referendum che stravinse con
l’80% dei “Sì”. Referendum presentato dai Radicali allo scopo di abrogare le
opportune norme per stabilire che ci esistesse una responsabilità civile
anche per i giudici. Del resto, dopo oltre venticinque anni, i casi di
risarcimento effettivo da parte di magistrati si possono contare sulla punta
delle dita. Invece, i cittadini sono oggi della stessa opinione di
venticinque anni fa. Sia quelli che sono nel frattempo invecchiati, sia
quelli che nel 1987 non erano ancora nati. Più precisamente il nostro ultimo
dato a rilevato lo scorso anno ci dice che l’87% degli italiani maggiorenni
è d’accordo con l’affermazione: “un magistrato che sbaglia dovrebbe essere
responsabile della propria azione”. Il dato è perfettamente concorde con la
nostra rilevazione precedente del 2010, i cui risultati davano 86%. Sul
tema, dunque, il pensiero degli italiani è chiaro e non muta almeno da un
quarto di secolo. Ma non ce l’anno fatta vincendo un referendum e non ce
l’anno fatta con un Berlusconi fortissimo. Ci riusciranno oggi?

Insorgono Anm e Csm: “A rischio la nostra indipendenza”. Duro scontro Pd-5S.
Renzi: “Correggeremo in Senato”, scrive “La Repubblica”. Il governo e la
maggioranza sono stati battuti, in un voto a scrutinio segreto, nell’esame
sulla legge europea 2013-bis alla Camera sulla responsabilità civile delle
toghe. E’ infatti passato un emendamento della Lega, a prima firma di
Gianluca Pini, e a cui governo e relatore avevano dato parere contrario.
Riscrive l’articolo 26 sulla responsabilità civile dei magistrati,
inasprendo di fatto le pene nei confronti dei giudici. I voti favorevoli
sono stati 187, mentre 180 i contrari. Sette voti di differenza che pesano,
visto che alla Camera governo e maggioranza contano su un ampio sostegno.
L’emendamento modifica l’articolo 2 della legge dell’88 sul risarcimento dei
danni causati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e sulla
responsabilità civile dei magistrati. Una questione sulla quale il
presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ricorda che l’indipendenza
dei giudici non è un privilegio. Il premier Matteo Renzi però, parlando con
i suoi da Pechino, del voto con il quale la maggioranza è stata battuta,
minimizza:”E’ una tempesta in un bicchiere d’acqua, il voto segreto è
occasione di trappoloni, ma le reazioni che vedo sono esagerate”, dice il
premier per il quale la norma sarà modificata a scrutinio palese al Senato.

LA RESPONSABILITA’ CIVILE IN EUROPA. La responsabilità civile secondo
l’Unione Europea. Colpa semplice e dolo sono forieri di responsabilità.

L’Ue all’Italia: se i giudici sbagliano, lo Stato paga, scrive Guido Scorza
su “Il Fatto Quotidiano”. È incompatibile con la disciplina europea il
principio stabilito nella legge italiana secondo il quale lo Stato non
risponde nei confronti dei cittadini per gli errori commessi dai giudici –
con provvedimenti definitivi e, quindi, non ulteriormente impugnabili – ogni
qualvolta si tratti di un errore di interpretazione della legge e/o di
valutazione delle prove ovvero non vi sia la prova che i magistrati hanno
agito con dolo o colpa grave. È questa la conclusione cui è pervenuta la
Corte di Giustizia dell’Unione europea all’esito di un procedimento promosso
dalla Commissione nei confronti del nostro Paese. L’Italia, “escludendo
qualsiasi responsabilità dello Stato italiano per i danni arrecati ai
singoli a seguito di una violazione del diritto dell’Unione imputabile a un
organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado, qualora tale violazione
risulti da interpretazione di norme di diritto o da valutazione di fatti e
prove effettuate dall’organo giurisdizionale medesimo, e limitando tale
responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave… è venuta meno agli
obblighi ad essa incombenti in forza del principio generale di
responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto dell’Unione da
parte di uno dei propri organi giurisdizionali di ultimo grado.”
Inequivocabile la posizione della Ue: non c’è ragione per la quale lo Stato
debba sottrarsi al principio del “chi rompe, paga”, quando a “rompere” – o
meglio a violare i diritti di un cittadino – siano i giudici. A leggere la
sentenza, peraltro, si scopre una circostanza curiosa e, al tempo stesso,
antipatica. Prima di avviare il procedimento dinanzi alla Corte di Giustizia
che ha poi portato alla sentenza di condanna dell’Italia, facendoci fare la
solita pessima figura, la Commissione ha dapprima ripetutamente sollecitato
il nostro Governo a fornire spiegazioni con lettere del febbraio e
dell’ottobre del 2009 e, quindi, con una comunicazione del 22 marzo 2010, lo
ha diffidato dall’adottare una serie di provvedimenti per riallineare il
diritto interno a quello dell’Unione. Il nostro Governo, tuttavia,
evidentemente preoccupato di questioni ben più serie legate alla sorte dei
processi contro il premier, non ha mai risposto. Curioso che l’ex premier
sempre pronto a chiedere la testa di questo o quel magistrato non abbia
condiviso la battaglia di civiltà giuridica promossa da Bruxelles e
vergognoso che un Paese si permetta il lusso di ignorare comunicazioni su
questioni tanto delicate provenienti dalla Commissione Ue. A questo punto,
però, giustizia è fatta: se i giudici sbagliano – con una sentenza
definitiva – lo Stato paga senza eccezioni e limitazioni. All’Italia, tocca
ora adeguarsi alle regole Ue a pena, in caso contrario, di pesanti sanzioni
economiche delle quali, francamente, non si avverte il bisogno. Peccato che
una regola tanto elementare ce l’abbiano dovuta prima spiegare e poi, visto
il nostro ostinato silenzio, imporre i giudici europei con una condanna.

LA RESPONSABILITA’ CIVILE IN ITALIA. La responsabilità civile secondo
l’Italia. Colpa grave e dolo sono forieri di responsabilità, ma solo se
rilevata dalle stesse toghe contro i colleghi.

Si dice spesso che in nessun Paese europeo esista e sia prevista la
responsabilità diretta del magistrato, ma in essi non c’è neppure un
articolo 28 della Costituzione che espressamente la preveda; né in nessun
altro Paese europeo i pubblici ministeri hanno l’autonomia e l’indipendenza
che hanno quelli italiani, dato che in tutta Europa gli stessi rimangono –
chi più, chi meno – al riparo dal potere esecutivo. Una volta chiuso il
processo, nulla impedisce che si possa agire nei confronti del magistrato,
non allungando in tal modo alcun tempo né moltiplicando le cause. È utile
ricordare che a oggi la categoria della colpa grave è stata identificata dai
giudici di legittimità in maniera talmente restrittiva e spesso miope che,
nella realtà, è stata resa invocabile in sparuti casi. In definitiva, la
Corte di Cassazione ha sempre fatto rientrare le ipotesi giunte alla sua
attenzione o in un ambito prettamente interpretativo facendolo poi sfociare
nella inammissibilità, o interpretando la colpa grave con il carattere
aberrante dell’interpretazione. La responsabilità è un valore assoluto – non
può essere un privilegio a danno degli italiani – pertanto è sacrosanta
l’introduzione della responsabilità civile personale dei magistrati e, nel
farlo, si tenga ben presente che lo stato della giustizia in Italia è tale
per cui, lungi dal “confidare” in essa, si è tutti esposti ad iniziative
giudiziarie discrezionali e variabili da Paese incivile. Nel 1987, sulla
scia del “caso Tortora”, più dell’80% degli italiani votò perche fosse
introdotta la responsabilità civile dei magistrati. Un anno dopo, dietro
l’impulso dell’allora Ministro della Giustizia Vassalli nacque la legge del
13 aprile 1988 sul “risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio nelle
funzioni giudiziarie e sulla responsabilità civile dei magistrati”.

Il 2 febbraio 2012, il colpo di scena con Governo battuto a scrutinio
segreto. La Corte di Giustizia aveva chiesto, anzi “intimato” più volte
all’Italia di cambiare la legge Vassalli a causa della sua mancata
corrispondenza con quanto previsto dal diritto comunitario poichè la
responsabilità andava estesa anche agli errori commessi dal magistrato per
un’interpretazione errata delle norme europee e per una valutazione
sbagliata di fatti o prove. In realtà, questo è stato il pretesto per
modificare invece un principio ben più rilevante per il nostro ordinamento:
non più solo lo Stato a rispondere degli errori commessi dal magistrato ma
anche la responsabilità diretta del giudice, con conseguente risarcimento
del danno. In particolare, l’emendamento Pini approvato dalla Camera
stabilisce che “chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un
comportamento, di un atto o di un provvedimento” di un magistrato “in
violazione manifesta del diritto o con dolo o colpa grave nell’esercizio
delle sue funzioni o per diniego di giustizia”, possa rivalersi facendo
causa sia allo Stato che al magistrato per ottenere un risarcimento.

Invece il Governo Renzi, con il Ministro Orlando propone una contro riforma.

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, COMUNICATO 4 AGOSTO 2014.

Un corretto funzionamento della responsabilità civile dei magistrati
costituisce un fondamentale strumento per la tutela dei cittadini ed un
necessario corollario all’indipendenza ed all’autonomia della magistratura.
Il meccanismo previsto dalla legge Vassalli adottato in esito al referendum
abrogativo del 1987 ha funzionato in modo assolutamente limitato. La legge,
infatti, pur condivisibile nell’impianto, prevede una serie di limitazioni
per il ricorrente che, di fatto, finiscono per impedire l’accesso a questo
tipo di rimedio e rendono poi aleatoria la concreta rivalsa sul magistrato
ritenuto eventualmente responsabile. Si tratta, quindi, d’intervenire per
rendere effettivo questo strumento. Un’ulteriore esigenza di intervento è
rappresentata dalle pronunce della Corte Europea di Giustizia, che sollecita
una maggiore effettività nelle procedure previste per il riconoscimento
delle responsabilità conseguenti alla errata applicazione del diritto
comunitario da parte del giudice.

Ampliamento dell’area di responsabilità. L’intervento sull’attuale
disciplina di settore riguarda in primo luogo il profilo dell’ampliamento
dell’area di responsabilità su cui possa far leva chi è pregiudicato dal
cattivo uso del potere giudiziario, in linea con il diritto dell’Unione
europea che include le ipotesi di violazione manifesta delle norme applicate
ovvero manifesto errore nella rilevazione dei fatti e delle prove. In
secondo luogo la responsabilità sarà estesa, nella ricorrenza dei medesimi
presupposti, al magistrato onorario. I giudici popolari resteranno
responsabili nei soli casi di dolo.

Superamento del filtro. Uno degli obiettivi del progetto è il superamento di
ogni ostacolo frapposto all’azione di rivalsa, nei confronti del magistrato,
che lo Stato dovrà esercitare a seguito dell’avvenuta riparazione del
pregiudizio subito in conseguenza dello svolgimento dell’attività
giudiziaria.

Certezza della rivalsa nei confronti del magistrato. L’azione di rivalsa nei
confronti del magistrato, esercitabile quando la violazione risulti essere
stata determinata da negligenza inescusabile, diverrà obbligatoria.

Incremento della soglia della rivalsa. Sarà innalzata la soglia dell’azione
di rivalsa, attualmente fissata, fuori dei casi di dolo, a un terzo
dell’annualità dello stipendio del magistrato: il limite verrà incrementato
fino alla metà della medesima annualità. Resterà ferma l’assenza di limite
all’azione di rivalsa nell’ipotesi di dolo.

Coordinamento con la responsabilità disciplinare. Saranno rafforzati i
rapporti tra la responsabilità civile del magistrato e quella disciplinare.

Per armonizzarsi con l’Europa, scrivono in via Arenula, bisogna innanzitutto
includere tra le ipotesi di responsabilità civile del giudice «la violazione
manifesta delle norme applicate ovvero il manifesto errore nella rilevazione
dei fatti e delle prove», una sorta di punizione per la negligenza grave.
Punizione che riguarderà sugli stessi presupposti anche i magistrati
onorari, mentre i giudici popolari (cioé i cittadini aggregati alle Corti
d’Assise) resteranno responsabili solo per i casi di dolo. Nel progetto
dell’esecutivo salta il filtro a protezione dei magistrati: una volta che lo
Stato sia stato condannato a riparare il danno da denegata/errata giustizia,
«dovrà» esercitare l’azione di rivalsa contro la o le toghe responsabili,
azione che in sostanza diventa «obbligatoria». La rivalsa dello Stato sarà,
da un punto di vista patrimoniale, «illimitata» nei casi di comprovato dolo
del magistrato, mentre se gli sia addebitabile solo una negligenza lo Stato
potrà rivalersi solo fino alla metà (oggi è un terzo, ma l’azione non è
obbligatoria) dello stipendio annuale. Resta comunque esclusa l’azione
diretta del cittadino nei confronti del giudice. Le linee guida creano
infine un legame diretto e necessario tra responsabilità civile e azione
disciplinare. Una condanna per negligenza costerà al giudice anche un
procedimento amministrativo che, pare di intuire, non potrà prescindere
dall’esito della prima. Quanto alla riduzione del filtro per l’azione volta
a ottenere il risarcimento, «bisogna stare attenti perché è alto il rischio
di azioni strumentali, cioè di reazione a un provvedimento sgradito del
magistrato. Se si toglie il filtro, occorre evitare la proliferazione di
azioni infondate, attraverso disincentivi o forme di sanzioni», ha detto il
presidente dell’Anm, Rodolfo Sabelli».

“L’Anm grida al lupo, quando il lupo, di fatto, ha fatto marcia indietro”.
Esordisce così il Senatore Enrico Buemi, Capogruppo del Partito Socialista
Italiano (PSI) in Commissione Giustizia a Palazzo Madama, interpellato dal
Velino, a proposito della reazione del sindacato delle toghe alle linee
guida del Governo sulla riforma della giustizia in materia di responsabilità
civile dei magistrati. Buemi, che è relatore della norma al Senato e che
sulla responsabilità civile dei magistrati ha presentato la pdl n. 1070,
spiega che la sanzione applicabile in caso di colpa grave del magistrato “è
molto limitata rispetto all’elaborazione fatta in commissione Giustizia,
dove si profilava che il minimo recupero economico potesse essere intorno al
50% del danno arrecato”. Mentre nelle linee guida della riforma del ministro
della Giustizia Andrea Orlando è previsto che il risarcimento per chi ha
subito il danno può arrivare fino al 50% dello stipendio annuo netto del
magistrato al momento in cui sono avvenuti i fatti. “Una briciola di
incremento – commenta Buemi – rispetto a una situazione che prima era
irrisoria. Stiamo infatti parlando di qualche migliaio di euro di
incremento, passando dal 30% al 50% dello stipendio, e cioè a 25/30 mila
euro di risarcimento del danno, in più col vincolo del prelievo mensile di
un massimo del quinto dello stipendio”. Il risarcimento previsto dal
ministero non e’ proporzionale al danno. “Di fronte a un danno che potrebbe
essere di decine di migliaia di euro, penso in particolare ai magistrati del
civile, c’è una non proporzionalità, tra il danno arrecato e la sanzione
applicata”, osserva Buemi. Un discorso che vale anche per i comportamenti
che prevedono la limitazione della libertà. “I magistrati – spiega ancora
Buemi – non hanno mai risposto civilmente per gli arresti prolungati nel
tempo che hanno generato azioni di risarcimento da parte di coloro che li
hanno subiti. In 25 anni di applicazione della norma Vassalli – ricorda il
senatore Psi – solo quattro casi sono andati a compimento, ma nessuno ha
avuto un’azione di rivalsa”. Insomma “il lupo non c’è e nessuno c’è l’ha con
i magistrati che svolgono azione meritoria – osserva Buemi rispondendo alle
preoccupazione dell’Anm – inoltre è sempre un giudice che deve stabilire se
un altro giudice ha commesso o no colpa grave nell’esercizio delle sue
funzioni”. Quando la riforma passerà all’esame del Parlamento “chiederò ai
colleghi un atteggiamento coerente e lo chiederò anche al presidente del
Consiglio, che in più riprese ha detto che ci deve essere lo stesso tipo di
recupero rispetto al danno arrecato. Non dico che ci debba essere un
recupero al cento per cento, ma ci deve essere una proporzionalità –
ribadisce Buemi – tra il danno arrecato e l’azione di concorso
all’indennizzo della parte che ha subito il danno, un indennizzo che non può
essere irrisorio”.

Rita Bernardini, segretario dei Radicali italiani, intervistata da Andrea
Barcariol su “Il Tempo” accoglie positivamente le linee guida sulla riforma
della Giustizia ma con una grande riserva sul testo finale: «Dubito che
rimanga così». Ampliata la responsabilità civile dei magistrati, in linea
con le direttive europee, anche se non ci sarà responsabilità diretta.

Soddisfatta?

«Si tratta di una serie di intenzioni che mi sembrano piuttosto serie.
Essendo passati 27 anni da quando il popolo italiano decise che voleva la
responsabilità civile dei magistrati (legge Vassalli ndr), mi auguro che
questa sia la volta buona».

Si aspetta dei cambiamenti tra la bozza e il testo finale?

«Le pressioni che farà l’Anm (associazione nazionale magistrati) saranno
pesanti, come è normale in uno Stato dove non è affermata in modo chiaro la
separazione dei poteri. Basti pensare a tutti i magistrati fuori ruolo che
sono distaccati, in particolare presso il ministero della Giustizia.
Affermare la responsabilità civile è giusto ma è necessario intervenire
anche in altri settori come quello dell’obbligatorietà dell’azione penale
che oggi lascia completamente nelle mani della magistratura la scelta dei
processi da celebrare e quelli da far cadere in prescrizione che sono circa
140 mila all’anno».

Il presidente Sabelli dell’Anm ha già parlato del rischio di cause
strumentali.

«Saranno sempre i magistrati a giudicare… Cause strumentali ci possono
sempre essere, a volte sono strumentali quelle che vengono fatte nei
confronti dei cittadini che subiscono processi inutili».

Quali sono gli aspetti che la convincono di più del testo?

«Voglio vedere quanto regge il testo rispetto alle pressioni, ciò dimostrerà
anche la determinazione del governo. L’aver previsto la violazione manifesta
del diritto è un passaggio importante su cui c’era forte opposizione da
parte dei magistrati. Sull’azione di rivalsa è vero che è sempre indiretta
però lo Stato deve obbligatoriamente rivalersi nei confronti del magistrato
quando c’è una negligenza inescusabile».

Quindi, secondo lei è stato centrato l’obiettivo dichiarato di togliere le
limitazioni del ricorrente per facilitare l’azione di rivalsa?

«Se il testo rimane questo mi sembra un enorme passo avanti, ma io ne
dubito».

Hanno troppo potere i magistrati…

«Comandano loro. Loro si scelgono i reati da perseguire e quelli da far
cadere in prescrizione».

La responsabilità civile dei magistrati? Il Governo esclude quella diretta,
e avrebbe già pronto un ddl che riscrive la responsabilità civile per i
magistrati: via il filtro e una rivalsa dello Stato sulla toga non più di un
terzo, ma della metà; e dunque chissenefrega di quanto ha approvato la
Camera dei deputati accogliendo l’emendamento Pini. Del resto lo si è fatto
tranquillamente con il referendum Tortora, i cui risultati erano
inequivocabili, e venne varata una normativa che andava in senso opposto…

La Camera ha dato il 2 febbraio 2012 l’ok alla norma sulla “responsabilità
civile dei giudici” con un voto trasversale: 264 sì. Anche parlamentari di
Pd, Idv, Terzo polo e gruppo misto quindi hanno votato a favore
dell’emendamento proposto dal leghista Gianluca Pini. “Partendo da un
pronunciamento della Corte di giustizia europea, introduce il principio per
cui «chi ha subito un danno ingiusto da un magistrato in violazione
manifesta del diritto o con dolo o colpa grave» possa chiedere il
risarcimento non solo allo Stato ma anche al «soggetto colpevole», ovvero al
giudice che l’ha mandato ingiustamente in carcere o che gli ha causato
problemi materiali, morali e psicologici” La responsabilità civile diretta
preoccupa i magistrati. Per ora, se sbagliano, è lo Stato a punirli (può
prelevare non oltre 1/3 dello stipendio), scrive “Tempi”. Dal 1988 al 2012,
i casi in cui è stata applicata la responsabilità (indiretta) sui magistrati
si contano sulle dita di una mano più un dito: 6. La giustizia è chiaramente
blanda con le toghe. E ciò sembra confermato da una recente sentenza sulle
punizioni dei magistrati delle Sezioni Unite della Cassazione. Nelle
motivazioni di una sentenza di aprile 2014, depositate ieri, a poche ore dal
sì della Camera all’emendamento Pini, le toghe supreme affermano che è
troppo penalizzante la legge che obbliga il trasferimento di un giudice o di
un pm per ogni condotta contraria al suo dovere di magistrato, anche se il
magistrato in questione ha violato i suoi doveri. Per questo la Cassazione
ha chiesto un parere alla Corte Costituzionale. La Cassazione si è espressa
sul caso di un magistrato del tribunale di Cesena (anonimo) che nell’autunno
2010 dimenticò di liberare due persone dalla custodia cautelare. Soltanto 56
giorni dopo la scadenza dei termini di custodia, i due cittadini furono
liberati dal giudice. Il caso finì al Csm, che condannò il giudice di Cesena
al trasferimento di sede per avere agito «con negligenza inescusabile» e
perché «arrecava un ingiusto danno ai predetti imputati che sono stati
ingiustificatamente ristretti sine titulo per un mese e venticinque giorni».
Il giudice, prosciolto dall’accusa di «grave violazione di legge determinata
da ignoranza o negligenza inescusabile», ma “condannato” al trasferimento,
fece ricorso in Cassazione. Nella sua difesa in Cassazione, il giudice
condannato ha spiegato che la dimenticanza era un fatto di «scarsa
rilevanza», che «era conseguenza delle carenze organizzative dell’ufficio».
Un fatto che «non aveva compromesso la sua immagine di magistrato». La
risposta della Cassazione? Ha sospeso la pena del magistrato e bocciato la
legge che prevede il trasferimento dei giudici, impugnandola davanti alla
Corte Costituzionale. Secondo la Cassazione, infatti, «la misura del
trasferimento di sede o di ufficio è particolarmente afflittiva per il
magistrato, sotto il profilo sia morale che materiale». Non può dunque
essere sempre e automaticamente prevista, nemmeno nel caso in cui il
magistrato violi i diritti degli imputati e i propri obblighi di
«imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo e equilibrio».

Responsabilità civile dei giudici. Il leghista Pini: «Non si può difendere
l’impunità assoluta delle toghe». Intervista di Francesco Amicone su “Tempi”
al deputato del Carroccio, che primo firmatario dell’emendamento approvato
alla Camera. «I magistrati paghino i propri errori come tutti. Almeno in
caso di dolo». È passato alla Camera (187 voti a favore contro 180)
l’emendamento che riscrive l’articolo 26 sulla responsabilità civile dei
magistrati. Di seguito riproponiamo la lettura dell’intervista che facemmo a
Gianluca Pini (Lega), primo firmatario. Perché i magistrati che sbagliano
non dovrebbero risarcire le vittime dei propri errori? «Non si fanno sconti
a tutti gli altri professionisti, anche quelli che svolgono lavori
delicati», denuncia il deputato leghista Gianluca Pini a tempi.it. «Dal
medico chirurgo al professore di scuola – spiega il vice-capogruppo alla
Camera della Lega Nord – se un dipendente pubblico (e ovviamente un privato)
commette uno sbaglio nello svolgimento delle proprie mansioni, può subire
una causa civile. I magistrati sono gli unici a godere dell’immunità». La
deduzione di Pini, che ha presentato alla Camera un emendamento sulla
responsabilità civile dei magistrati, è logica: «Se la legge è uguale per
tutti, i magistrati devono rispondere direttamente del proprio operato e
risarcire le vittime dei propri errori dolosi».

Onorevole Pini, la sua “domanda di eguaglianza” è disattesa dal 1987, quando
a favore della responsabilità civile delle toghe si espresse il 80 per cento
degli elettori. Ad oggi, né il Parlamento né la Corte costituzionale hanno
saputo dare risposta: perché?

«Quando si parla di magistrati si cerca di stare molto attenti e molto
spesso si finisce per non cambiare nulla. I detrattori della responsabilità
diretta oppongono a una legge giusta, che toglie l’immunità totale ai
magistrati, fantomatiche questioni sull’indipendenza e sull’autonomia
dell’ordine, messe in discussione – secondo questa curiosa teoria – dal
desiderio di giustizia delle vittime degli errori giudiziari. Mi chiedo cosa
c’entri la terzietà dei magistrati con l’impossibilità per un cittadino di
fare causa a pm e giudici che commettono errori dolosi nei suoi confronti».

Si dice, per esempio, che i giudici, spaventati dal rischio di una causa,
avrebbero timore di fare il loro mestiere.

«Mi scusi, fare il chirurgo forse è un lavoro meno delicato del magistrato?
Fra l’altro, i magistrati sono già dotati di una copertura assicurativa e a
giudicarli sarebbero altri magistrati. L’obiezione è risibile».

All’estero però non si prevede la responsabilità diretta dei magistrati.

«Vero, ma si dimentica di ricordare che all’estero rimuovere giudici e pm
che sbagliano è molto più semplice. In Inghilterra, per esempio, basta il
voto della maggioranza del Parlamento. Vogliamo farlo anche in Italia?
Vogliamo introdurre la chiamata diretta dei giudici da parte di organismi
politici? Oppure vogliamo eleggere i procuratori e i giudici come avviene in
alcuni stati americani? Da noi è l’organo di autogoverno dei magistrati a
giudicare i comportamenti dei magistrati e a decidere della loro carriera.
Ed è risaputo che non sia particolarmente duro nei confronti dei colleghi
che sbagliano. In qualche modo, bisogna riequilibrare il sistema».

Il suo tentativo di “responsabilizzare” giudici e pm è già stato affossato
nel 2012. E poche settimane fa è stato bocciato un secondo emendamento sulla
responsabilità civile, grazie ai voti del Movimento 5 Stelle. Perché lo
ripresenta?

«Perché il voto si terrà a scrutinio segreto, come è avvenuto nel 2012,
quando l’emendamento passò alla Camera grazie ai voti della sinistra. Non
diventò legge a causa dell’opposizione del governo Monti e del Pdl. Ora
vedremo cosa diranno i nuovi partiti Forza Italia e Ncd. Il mio emendamento
è molto meno “duro” nei confronti dei pm e dei giudici rispetto a quello
bocciato di recente. Spero che possa essere accolto anche dai 5 Stelle.
Beppe Grillo un tempo si diceva a favore della responsabilità diretta dei
magistrati: ha cambiato idea, come sul reato di immigrazione clandestina?»

In cosa consiste l’emendamento?

«Si tratta dell’applicazione di una sentenza di condanna allo Stato italiano
della Corte di giustizia europea e mai applicata. La Corte denuncia che in
Italia è quasi impossibile chiamare in causa i magistrati che non applicano
una norma comunitaria favorevole al cittadino, nonché che la normativa è
inefficace e restrittiva nel sanzionare il singolo magistrato. L’emendamento
si limita a estendere la norma in applicazione della sentenza a tutti i casi
e non solo in merito a quelli europei, aggiungendo che l’errore per chiamare
in causa – direttamente – il magistrato deve essere fatto con dolo. In
pratica, un giudice può essere chiamato in sede civile dal cittadino solo se
va volontariamente contro la legge. Nel 2013 l’Europa ha aperto una
procedura di infrazione per non aver applicato la sentenza. Cosa vogliamo
fare?»

Sta dicendo che lo Stato oltre a rispondere per gli errori dolosi dei
magistrati potrebbe essere costretto a pagare una multa perché non si rivale
su di loro? Cosa impedisce ai magistrati italiani di indignarsi di fronte a
questa iniquità che danneggia i cittadini contribuenti e favorisce i
colleghi che sbagliano?

«Di certo c’è che i bravi magistrati non hanno alcuna ragione di opporsi
alla norma. Infatti si applicherebbe soltanto in caso di dolo e di manifesta
violazione dei diritto. La legge è necessaria, visto che il principio della
malatissima giustizia italiana è classificare un imputato come colpevole
fino a prova contraria. Nel frattempo i processi durano anni e, anche quando
finiscono in niente, la vita degli innocenti è rovinata. Una norma sulla
responsabilità civile diretta come questa sarebbe utile a rendere davvero
indipendente e terzo il magistrato che valuta i casi e ad applicare la
normativa europea. Servirebbe anche a eliminare qualsiasi “fumus
persecutionis”. Ci sono tanti esempi, purtroppo, di come i magistrati
italiani evitano di applicare una legge “in favor rei”, trascinando il
processo fino in Cassazione. Quando poi i cittadini si rivolgono allo Stato
per ottenere i risarcimenti e agire indirettamente sui magistrati, nella
maggior parte dei casi non succede nulla».

La responsabilità civile diretta dei magistrati riuscirà a diventare legge?
A favore ci sono anche molti esponenti della sinistra, come Giuliano
Pisapia. Oppure prevarrà l’ala degli strenui difensori della corporazione?

«Spero nel buon senso. L’emendamento arriverà in Parlamento, probabilmente,
nella settimana successiva al voto per le europee. Grazie allo scrutinio
segreto, la sinistra potrà emanciparsi dalle posizioni di alcuni guardiani
del sindacato presenti nelle sue schiere, ex pm e giudici, magistrati in
aspettativa, oggi parlamentari. Non si può difendere l’assoluta impunità
delle toghe, anche quando commettono errori dolosi.

Responsabilità civile dei magistrati, Mantovano: “Ora o mai più”, diceva l’8
febbraio 2012 a Chiara Rizzo su “Tempi”. “Qualsiasi professionista, un
medico, un avvocato, un ingegnere è responsabile per i suoi atti. Che lo
diventi personalmente anche un giudice, che questi sia messo sullo stesso
piano di un altro professionista, non scalfisce alcun un principio di
responsabilità”. Il deputato e magistrato Alfredo Mantovano spiega perché è
giusto che un giudice paghi se sbaglia. Il deputato Alfredo Mantovano (Pdl)
è stato magistrato di Cassazione, e dal 2008 al novembre 2011
sottosegretario all’Interno. Ora è tornato a Montecitorio, dove, lo scorso 2
febbraio ha votato favorevolmente all’emendamento Pini: quello cioè che, con
264 voti favorevoli, prevede la responsabilità civile dei magistrati. Dopo
il voto, sono fioccate le polemiche. A tempi.it, Mantovano spiega perché ha
deciso di votare a favore del provvedimento.

Mantovano, avete forzato la mano?

«È difficile parlare di forzature 25 anni dopo un referendum che è rimasto
praticamente inattuato. Nell’87 gli italiani votarono favorevolmente
all’introduzione della responsabilità civile per i magistrati. Da allora, al
momento di intervenire a livello legislativo, si dice sempre che non è il
momento adatto e si trova una ragione per rinviare. Questo ha fatto sì che
il parlamento, quando si è presentata una situazione valida come quella
attuale (con una sentenza della Corte europea che chiedeva all’Italia di
intervenire sul tema e una procedura avviata nei confronti del nostro paese
per l’infrazione, ndr), abbia risposto “ora o mai più”. Abbiamo rimediato ad
una situazione intollerabile».

Dopo il referendum dell’87 però è stata fatta una legge, la Vassalli
dell’88, che interviene sulla responsabilità dei magistrati prevedendo che
il cittadino possa rivalersi e costringere lo Stato a pagare.

«Io ero magistrato quando è uscita la legge Vassalli: l’effetto che ha
prodotto è che il giorno dopo l’entrata in vigore ogni magistrato di buon
senso ha sottoscritto una bella polizza assicurative Rc: essendo all’epoca
noi magistrati in settemila, ci fecero anche dei prezzi di “favore”, con un
acconto annuale di 120 mila lire. Con l’adeguamento oggi quell’assicurazione
si aggira sui 150 euro: persino un magistrato può sopravvivere pagandola. Il
problema della Vassalli è che quella legge ha un meccanismo così filtrato da
giustificare, alla fine, qualsiasi operato. L’emendamento appena votato non
va all’estremo opposto. Si fa valere la colpa grave del magistrato, si
ampliano le maglie per chiedere il riconoscimento di una responsabilità, ma
non al punto che il magistrato si terrorizzi, come ha sostenuto qualcuno. Lo
si fa solo al punto che anche il magistrato sia tenuto a conoscere il
diritto che deve applicare, cosa che oggi non sempre avviene. Qualsiasi
professionista, un medico, un avvocato, un ingegnere è responsabile per i
suoi atti. Che lo diventi personalmente anche un giudice, che questi sia
messo sullo stesso piano di un altro professionista, non scalfisce alcun un
principio di responsabilità».

Michele Vietti, il vicepresidente del Csm non la pensa così. Dice che i
giudici «rappresentano un unicum non paragonabile agli altri
professionisti», perché devono decidere chi abbia ragione tra due persone. E
con questa nuova norma, secondo Vietti, «non è difficile immaginare una
predisposizione a non imicarsi la parte più forte».

«Rispondo citando due casi reali. Primo caso. Un magistrato fa spendere allo
Stato migliaia di euro in intercettazioni per un’indagine che all’udienza
preliminare crolla con decreti di archiviazione per quasi tutti gli
indagati, anche a fronte di decine di misure cautelari già emesse. Tutto
questo oggi non porta a nessuna conseguenza per i magistrati. Secondo caso.
Mi è capitato di leggere una sentenza di dichiarazione di fallimento di
un’azienda. Il proprietario dell’azienda, però, è stato citato in aula per
potersi difendere nel giorno sbagliato. Così non si è potuto difendere, è
stato dichiarato il fallimento senza che nessuno si opponesse, l’azienda è
saltata in aria e i dipendenti hanno perso il lavoro. Rispetto a questi casi
concreti, cosa dice il vicepresidente del Csm Vietti? Secondo lui questo chi
risarcisce questi danni? E perché, secondo lui, dobbiamo accollarli alla
collettività?»

Le toghe però protestano. Con l’Anm in testa che dice che questo
provvedimento è incostituzionale. Perché secondo lei non è vero?

«Ho fatto il giudice per 13 anni e l’esponente di governo per 10. Perché la
mia firma in calce a provvedimenti di governo mi espone subito alla
responsabilità civile e quella da magistrato no? Incostituzionale semmai è
trattare diversamente situazioni che rispondono alla stessa logica: due
rappresentanti dello Stato perché dovrebbero essere trattati diversamente in
base al ruolo che occupano?»

In Aula gran parte delle forze politiche erano d’accordo sulla sostanza
dell’emendamento, ma hanno sostenuto che non fosse quello il modo giusto di
trattare la vicenda. Perché il Pdl non ha fatto qualcosa in questi ultimi
anni e nelle giuste sedi deputate, a cominciare dalla Commissione giustizia?

«La stessa presidente della Commissione alla Camera, Giulia Bongiorno, prima
del voto, ha detto che si sarebbe dovuto intervenire in altre sedi. È
singolare che proprio lei dica questo: lo chiediamo a lei, perché non lo ha
fatto sinora. Non toccava a me convocare la Commissione giustizia per
intervenire prima. A me pare che sia come se uno si rifiutasse di
dichiararsi all’amato, e rinviasse sempre il momento. Parto da una
considerazione tutta politica: al momento del voto, i partiti che avevano
deciso di votare favorevolmente erano a ranghi ridotti. Ci sono stati 60
voti dati da altri partiti: è un segnale politico pesante e trasversale.
Penso che non vada ignorato o peggio disprezzato. È questo il momento di
intervenire. Ora, al Senato, si potrà rendere il testo dell’emendamento
migliore. Non dubito che i tecnici del governo, che son più bravi di tutti,
lo sapranno fare. Ma non potrà cambiare la sostanza politica: cioè deve
rimanere il fatto che lo Stato non ha più la discrezionalità ma il dovere di
rivalersi sul magistrato. Non vedo perché nei casi di errore che ho citato
prima devono pagare i contribuenti».

Responsabilità civile dei magistrati: 7 casi accertati in 26 anni. Ecco i
dati dell’avvocatura generale dello Stato, aggiornati al febbraio 2014.
Dimostrano che il sistema sanzionatorio non funziona, scrive Maurizio
Tortorella su “Panorama”. Da anni si parla di introdurre una più realistica
responsabilità civile per i magistrati italiani. Ma qual è la situazione
effettiva? Quanti sono stati i giudici raggiunti da un’azione civile?
Panorama.it, finalmente, è in grado di pubblicare dati ufficiali
dell’Avvocatura generale dello Stato: e sono anche dati aggiornatissimi,
visto che risalgono al 7 febbraio 2014. Dal 1988, quando entrò in vigore la
legge Vassalli che (in teoria) avrebbe dovuto sistematizzare la normativa
alla luce di quanto i cittadini avevano richiesto a gran voce con il
referendum abrogativo dell’anno precedente, sono state proposte in tutto 410
cause civili nei confronti di altrettanti magistrati, ritenuti
«responsabili» di una qualche colpa grave da cittadini incorsi in un
procedimento giudiziario. Le domande sono di per sé pochissime: poco più di
16 all’anno. Il motivo di una così rarefatta richiesta di giustizia da parte
delle presunte vittime di malagiustizia, che invece stando alle cronache
sono tantissime, sta nella complessità della procedura, ma anche nella
scarsa fiducia nella capacità di ottenere effettivamente giustizia, e in
certi casi forse anche nel timore di aggredire legalmente un magistrato. Del
resto, fra tutti i ricorsi presentati, solamente 266 sono stati ritenuti
inammissibili, mentre 71 sono ancora in attesa di ottenere la
complicatissima patente di «ammissibilità» da parte di un tribunale. Altri
25 procedimenti già cassati sono stati ri-presentati con un’impugnazione da
parte della presunta vittima di ingiustizia. In totale, insomma, le
richieste presentate e ammesse al vaglio di un tribunale sono state 35 in un
quarto di secolo: sono appena l’8,5% del totale. Mentre altre 44 sono ancora
pendenti (generalmente dopo lunghi anni dalla presentazione). E come sono
terminati i giudizi? Malissimo per i ricorrenti: perché anche alla fine del
tormentatissimo iter legale, quasi metà delle richieste di accertamento
della responsabilità civile di un magistrato sono state respinte: ben 17. E
soltanto 7 sono state accolte. Sette in totale, sulle 410 avviate: ovverosia
l’1,7%. A guidare la classifica dei giudizi negativi per i magistrati è il
tribunale di Perugia, con 2 casi. Un caso a testa riguarda invece le
avvocature di Brescia, Caltanissetta, Lecce, Reggio Calabria e Trento. Al
momento, dei 44 ricorsi pendenti, 10 riguardano l’avvocatura di Messina, al
primo posto; altri 7 sono a Salerno, altri 4 a Roma e altrettanti a Trento.
Tre casi si segnalano a Potenza e ad Ancona. Due a testa sono pendenti
davanti alle avvocature di Caltanissetta, Catania, Catanzaro, Firenze,
Genova. Una riguarda Napoli, un’altra Brescia, l’ultima Venezia. I dati, se
mai ce ne fosse stato bisogno, dimostrano che il sistema sanzionatorio
varato 26 anni fa non funziona affatto.

La responsabilità civile dei Magistrati esiste dal 1988, in 26 anni solo 4
condanne. «Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è
da esse che si misura il grado di civiltà di una nazione» Voltaire. Da
quando esiste la legge sulla responsabilità civile i magistrati non hanno
mai sborsato un euro. C’è una legge che regola la responsabilità civile dei
giudici. Esiste dal 1988 ed è nota con il nome di “Legge Vassalli”, scrive
Enrico Novi su Il Garantista del 6 agosto 2014. Quella norma prevede in
teoria che lo Stato, se costretto a risarcire un cittadino per un errore
giudiziario, possa rivalersi sul giudice. In teoria, appunto. Perché in
pratica quest’ultima circostanza si è verificata zero volte. Da 26 anni cioè
non è ma successo che un magistrato abbia pagato per un proprio errore. Il
che fa comprendere per quale motivo il ministro della Giustizia Andrea
Orlando intenda rivedere la norma. Meno comprensibili sono le resistenze
opposte dall’Anm. Soprattutto se si pensa che ogni anno vengono intentate,
per esempio, decine di migliaia di cause per errori sanitari (circa 600mila
dal 1994), e che di queste un terzo si conclude con una condanna. Su una
cosa il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli batte con insistenza, riguardo
alla responsabilità civile: non vanno toccati i filtri di ammissibilità. Il
che di fatto equivale a dire che la legge Vassalli deve sopravvivere così
com’è. Perché i “filtri” – cioè la valutazione di ammissibilità delle cause
per danno giudiziario – rappresentano il punto decisivo: se non si tolgono
quelli non cambia niente. E se non cambia niente i giudici continueranno a
non risarcire un euro. Un euro che sia uno, e non è un’iperbole.
Dall’introduzione della legge Vassalli sulla responsabilità civile dei
magistrati, infatti, non è mai successo che lo Stato si rivalesse su un
giudice. Mai, neppure una volta in 26 anni, perché la Vassalli è dell’88.
Venne approvata per recepire l’esito di un referendum promosso dai radicali
l’anno prima. Dopo 26 anni, con tutto il rispetto del grande giurista di cui
porta il nome, si può dire che quella legge è una presa in giro. Non nelle
intenzioni, evidentemente, ma nei fatti sì. In 26 anni solo 4 volte è
capitato che arrivasse a sentenza definitiva una causa di risarcimento
intentata contro lo Stato per un errore giudiziario. Parliamo di 4 volte in
26 anni, cioè in media viene condannato un giudice ogni 6 anni e mezzo.
Dopodiché neppure in queste 4 misere occasioni il giudice in questione ha
tirato fuori un soldo. Perché? Lo si deve proprio alla formulazione della
legge Vassalli. Che su un punto si è rivelata particolarmente vaga:
l’obbligo di rivalsa da parte dello Stato. Tale obbligo è formulato in modo
talmente vago che di fatto non esiste. Cosicché neppure in una delle 4
occasioni in cui lo ha dovuto pagare un cittadino per colpa di un giudice,
lo Stato ha provveduto ha rivalersi sul responsabile. Certo, seppure lo
avesse fatto, il giudice non avrebbe comunque tirato fuori un euro dalle
proprie tasche. Dalle buste paga di tutti i magistrati italiani infatti
viene trattenuta una piccola quota che serve a pagare l’assicurazione sulla
responsabilità civile. A quanto ammonta? “Io ho smesso di fare il giudice
nel 2001: all’epoca la trattenuta era di 100mila lire l’anno”, ricorda il
presidente della commissione Giustizia del Senato Francesco Nitto Palma.
Oggi si arriva a circa 150 euro l’anno. Cifra davvero bassa: per una
categoria di medici particolarmente esposta alle cause civili come quella
dei chirurghi possono scattare premi assicurativi superiori ai 15mila euro,
come segnala l’Ordine dei medici di Pavia. In pratica per ogni euro pagato
all’assicurazione da un giudice, un chirurgo ne paga 100. Come si può
intuire la posizione rigida assunta dall’Anm su questa materia rischia di
perpetuare un effetto paradossale, di certo non voluto: ossia di preservare
non solo l’intangibilità delle toghe ma anche il lucro delle assicurazioni.
In 26 anni di legge Vassalli le compagnie hanno occupato il tempo a stappare
champagne. Due conti: oggi a ogni magistrato vengono trattenuti in media 150
euro l’anno per la polizza; moltiplicato per i 9.000 magistrati italiani fa
un milione e 350mila euro l’anno; moltiplicato per 26 anni, pure a tenere
conto dell’inflazione, siamo intorno ai 30 milioni di euro. Una cifra
regalata alle assicurazioni, pulita. Perché come detto, in questi 26 anni le
compagnie non hanno mai dovuto pagare neppure un risarcimento. È pur vero
che in qualche modo l’interesse delle toghe coincide con quello degli
assicuratori. Se infatti le maglie della responsabilità civile fossero
allargate, come vorrebbe fare il ministro Andrea Orlando, e aumentasse il
rischio di veder condannati gli errori giudiziari, da una parte le compagnie
comincerebbero finalmente a risarcire qualche danno, dall’atra
aumenterebbero anche i premi assicurativi. Cioè potrebbe succedere che lo
Stato debba trattenere dalla busta paga di un magistrato una cifra un po’
più consistente degli attuali 150 euro. Sempre di soldi si tratta, dunque.
Di soldi e di rischi: roba da broker più che da guardasigilli. Ecco perché
nella riforma di Orlando ci sono almeno altri due aspetti, oltre
all’eliminazione dei filtri di ammissibilità, che tengono in allarme
l’Associazione nazionale magistrati. Il primo è la definizione precisa
dell’obbligo di rivalsa da parte dello Stato. Secondo la scheda tematica
pubblicata l’altro ieri sul sito del ministero della Giustizia, la rivalsa
sarebbe automatica non solo nel caso estremo del dolo (lo è già oggi) ma
anche di fronte a una particolare fattispecie di colpa grave: la cosiddetta
“mancanza per negligenza inescusabile”. Il secondo motivo di tensione tra
governo e giudici è l’estensione dei casi nei quali un giudice può essere
citato in giudizio: l’esecutivo pensa di recepire un’indicazione della Corte
europea, secondo cui la responsabilità civile di un giudice deve essere
prevista anche in caso di mancata adesione alla giurisprudenza comunitaria.
L’Anm vorrebbe che questa casistica venisse limitata il più possibile. Il
match, come si vede, è destinato ad andare avanti per parecchie riprese.

Che anche le toghe paghino per i loro errori: adesso lo pretende la Ue,
chiede “Libero Quotidiano”. La Commissione Europea ha aperto una procedura
di infrazione contro l’Italia perchè non adegua la sua normativa sulla
responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si
aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti
“cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie”. Casistica regolata da
una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe
rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel
compimento dell’errore giudiziario. All’Ue non sta bene, e il procedimento
di infrazione non è un fulmine a ciel sereno. E’ del novembre 2011 la
condanna all’Italia da parte della Corte di Giustizia Ue per l’inadeguatezza
della nostra normativa in materia di responsabilità civile dei giudici,
mentre già nel settembre 2012 la Commissione aveva chiesto al governo
aggiornamenti sull’applicazione del decreto di condanna. Ma non è bastato.
In due anni i governi di Mario Monti e Enrico Letta non hanno adeguato la
legge italiana a quella europea, e ora l’Ue passa ai provvedimenti
sanzionatori. L’Italia è responsabile della violazione del diritto
dell’Unione da parte di un suo organo (in questo caso giudiziario), e per
questo sarà chiamata a pagare. Qual è il problema per l’Ue? Che i giudici
italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo
ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad
altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri
colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei
giudici ai soli casi di errore viziato da “dolo e colpa grave”. E, come se
non fosse abbastanza, il legislatore assegna l’onere della prova (ovvero la
dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede
risarcimento per il danno subito. Per l’Ue troppo poco. La Commissione Ue
chiede all’Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via
l’onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della
responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata
interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza
il presupposto della malevolezza della toga verso l’imputato. Anche per
colpa semplice, insomma. Interpellate da Bruxelles nel settembre 2012, le
autorità italiane avevano risposto in maniera rassicurante: cambieremo la
legge. In dodici mesi non si è mossa una foglia, e ora il Belpaese va
incontro a un procedimento di infrazione, cioè a una cospicua multa.
Insomma, non pagano i giudici, paghiamo noi.

La proposta di aprire una nuova procedura d’infrazione è stata preparata dal
servizio giuridico della Commissione che fa capo direttamente al gabinetto
del presidente Josè Manuel Barroso, scrive “La Repubblica”. Bruxelles si è
in pratica limitata a constatare che a quasi due anni dalla prima condanna,
l’Italia non ha fatto quanto necessario per eliminare la violazione del
diritto europeo verificata nel 2011. La prima sentenza emessa dai giudici
europei ha decretato che la legge italiana sulla responsabilità civile dei
magistrati li protegge in modo eccessivo dalle conseguenze del loro operato,
ovvero rispetto agli eventuali errori commessi nell’applicazione del diritto
europeo (oggi circa l’80% delle norme nazionali deriva da provvedimenti Ue).
Due in particolare le ragioni che hanno portato Commissione e Corte a
censurare la normativa italiana giudicandola incompatibile con il diritto
comunitario. In primo luogo, osservano fonti europee, la legge nazionale
esclude in linea generale la responsabilità dei magistrati per i loro errori
di interpretazione e valutazione. Inoltre, la responsabilità dello Stato
scatta solo quando sia dimostrato il dolo o la colpa grave. Un concetto,
quest’ultimo, che secondo gli esperti Ue la Cassazione ha interpretato in
maniera troppo restrittiva, circoscrivendola a sbagli che abbiano un
carattere “manifestamente aberrante”.

Ciò che l’Unione Europea contestava, e ancora contesta, è l’eccessiva
protezione garantita alla magistratura italiana, scrive “Il Giornale”. Per
eventuali errori commessi nell’applicare il diritto europeo, non è infatti
prevista responsabilità civile, che entra in gioco per dolo o colpa grave,
ma non per errori di valutazione o interpretazione. Una differenzia
importante, se si considera che circa l’80% delle norme italiana deriva
ormai da provvedimenti comunitari. Pronta la replica delle toghe: guai a
toccare i magistrati. Nessun “obbligo per l’Italia di introdurre una
responsabilità diretta e personale del singolo giudice”: l’Europa “conferma
che nei confronti del cittadino l’unico responsabile è lo Stato”. Il vice
presidente del Csm Michele Vietti commenta così la notizia dell’avvio di una
procedura da parte dell’Ue. “L’Europa ha parlato di responsabilità dello
Stato per violazione del diritto comunitario; non entra invece nella
questione della responsabilità personale dei giudici perché é un problema di
diritto interno, regolato diversamente nei vari Stati membri”, ha
puntualizzato il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Rodolfo
Sabelli, che sin da ora avverte: “Denunceremo ogni tentativo di
condizionamento dei magistrati attraverso una disciplina della
responsabilità civile che violi i principi di autonomia e indipendenza”.

Tutti uguali davanti alla legge. Tutti uguali? Anche i magistrati? E invece
no. I magistrati sono al di sopra della legge, ci si tengono – al di sopra –
con pervicacia, si rifugiano sotto l’ombrello dell’autonomia, indipendenza
dalla politica, in realtà tenendosi stretto il privilegio più anacronistico
che si possa immaginare: l’irresponsabilità civile. O irresponsabilità
incivile, scrive Marco Ventura su “Panorama”. La Commissione Europea ha
deciso di avviare una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia per
l’eccessiva protezione offerta dalle norme ai magistrati, per i limiti
all’azione di risarcimento delle vittime di palesi e magari volute
ingiustizie. Per l’irresponsabilità del magistrato che per dolo o colpa
grave rovini la vita delle persone con sentenze chiaramente errate, se non
persecutorie. Succede che in capo direttamente al presidente della
Commissione UE, Barroso, è partita la proposta di agire contro l’Italia per
aver totalmente ignorato la condanna del 2011 della Corte di Giustizia che
fotografava l’inadeguatezza del sistema italiano agli standard del diritto
europeo rispetto alla responsabilità civile delle toghe. Dov’è finita allora
l’urgenza, la fretta, quel rimbocchiamoci le maniche e facciamo rispettare
la legge e le sentenze, che abbiamo visto negli ultimi giorni, settimane,
mesi, come una battaglia di principio che aveva e ha come bersaglio
l’avversario politico Silvio Berlusconi. Perché dal 1987, anno del
referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, c’è stata solo una
legge, la Vassalli dell’anno successivo, che serviva purtroppo per
introdurre una qualche responsabilità ma non troppa, per non pestare i piedi
alla magistratura, forte già allora di uno strapotere discrezionale nella
sua funzione inquirente e nella sua vocazione sovente inquisitoria. Adesso
che l’Europa ci bacchetta (e la minaccia è anche quella di farci pagare per
l’irresponsabilità dei nostri magistrati, dico far pagare a noi contribuenti
che sperimentiamo ogni giorno le inefficienze e i ritardi della giustizia
civile e penale), l’Europa non è più quel mostro sacro che ha sempre
ragione. Non è più neanche il depositario del bene e del giusto. È invece la
fonte di una raccomandazione che merita a stento dichiarazioni di seconda
fila. E l’Associazione nazionale magistrati stavolta non tuona, non
s’indigna, non incalza. Si limita a scaricare il barile al governo, dice per
bocca dei suoi vertici che la Commissione non ha infilzato i singoli
magistrati ma lo Stato italiano per la sua inadempienza al diritto UE,
comunitario. Come se i magistrati e la loro associazione corporativa non
avessero avuto alcuna voce in capitolo nel tornire una legislazione che non
è in linea con lo stato di diritto di un avanzato paese europeo. Come se in
questo caso le toghe potessero distinguere le loro (ir)responsabilità da
quelle di una parte della politica che ha fatto sponda alle correnti
politiche giudiziarie e alla loro campagna ventennale. Come se i magistrati
più in vista, più esposti, non avessero facilmente e disinvoltamente
travalicato i confini e non si fossero gettati in politica facendo tesoro
della popolarità che avevano conquistato appena il giorno prima con le loro
inchieste di sapore “politico”. Ma quel che è peggio è l’odissea di tanti
cittadini vittime di ingiustizia che si sono dovuti appellare all’Europa,
avendo i soldi per farlo e il tempo di aspettare senza morire (a differenza
di tanti altri). A volte ho proprio l’impressione di non trovarmi in Europa
ma in altri paesi che non saprei citare senza peccare di presunzione.
L’Italia, di certo, non appartiene più al novero dei paesi nei quali vi è
certezza del diritto. Per quanto ancora?

Di altro parere rispetto a quello espresso dalle toghe, invece è il
Presidente della Repubblica e capo del CSM. L’opposizione dei giudici alla
riforma della giustizia è eccessiva, spiega “Libero Quotidiano”. Se ne è
accorto anche Giorgio Napolitano che, il 20 settembre 2013 intervenendo alla
Luiss per ricordare Loris D’Ambrosio, riflette sul rapporto tra magistratura
e politica: entrambi i poteri sbagliano, ma la magistratura è troppo piegata
sulle sue posizioni ed una rinfrescata ai codici sarebbe cosa buona. Secondo
Napolitano, le critiche che le piovono addosso, vero, sono eccessive; ma ai
punti a perdere sono i magistrati, sempre più convinti di essere
intoccabili. La politica e la giustizia devono smettere di “concepirsi come
mondi ostili, guidati dal sospetto reciproco”, dice Napolitano che sogna,
invece, l’esaltazione di quella “comune responsabilità istituzionale”
propria dei due poteri. “Ci tocca operare in questo senso – precisa
Napolitano – senza arrenderci a resistenze ormai radicate e a nuove
recrudescenze del conflitto da spegnere nell’interesse del Paese”. Per
superare quelle criticità emerse con foga negli ultimi vent’anni (prendendo
Tangentopoli come primo e vero momento di scontro tra politica e
magistratura), secondo Napolitano, la soluzione si può trovare “attraverso
un ridistanziamento tra politica e diritto” ma soprattutto non senza la
cieca opposizione ad una riforma completa della magistratura. Il presidente
della Repubblica sembra non sapersi spiegare perché proprio i magistrati
siano sulle barricate per difendere il loro status. Tra i giudici, dice
Napolitano, dovrebbe “scaturire un’attitudine meno difensiva e più
propositiva rispetto al discorso sulle riforme di cui la giustizia ha
indubbio bisogno da tempo e che sono pienamente collocabili nel quadro dei
principi della Costituzione repubblicana”. Sul Quirinale non sventola mica
la bandiera di Forza Italia, ma bastano le lampanti criticità ad illuminare
il discorso di Re Giorgio. “L’equilibrio, la sobrietà ed il riserbo,
l’assoluta imparzialità e il senso della misura e del limite, sono il
miglior presidio dell’autorità e dell’indipendenza del magistrato”. Così
Napolitano non si lascia sfuggire l’occasione di parlare indirettamente a
quei magistrati che fanno del protagonismo la loro caratteristica
principale. Pm, come Henry John Woodcock, o giudicanti, come il
cassazionista Antonio Esposito, che si sono lasciarti sedurre da taccuini e
telecamere quando, invece, avrebbero dovuto seguire quei dettami di
“sobrietà e riserbo”. Il presidente, poi, ricorda che nessun lavoro è
delicato quanto quello del giudice perché sa che dalla magistratura dipende
la vita (o la non-vita) degli indagati.

La negazione dell’errore giudiziario e la idolatria dei magistrati. E’ certo
che gli umani siano portati all’errore. E’ certo anche che gli italiani
hanno il dna di chi è propenso a sbagliare, soprattutto per dolo o colpa
grave. E’ palese l’esistenza di 5 milioni di errori giudiziari dal dopo
guerra ad oggi. E’ innegabile che il risarcimento per l’ingiusta detenzione
dei detenuti innocenti è un grosso colpo all’economia disastrata
dell’Italia. Nonostante l’idolatria è risaputo che i magistrati italiani non
vengono da Marte. Sin dal Corpus iuris il reato di denegata giustizia era
oggetto di previsione normativa. La novella 17 colpiva quei magistrati che
obbligavano i sudditi ad andare ad implorare giustizia dall’imperatore,
perché gli era stata negata dai magistrati locali. La novella 134 puniva con
la multa di 3 libbre d’oro il giudice di quella provincia, che, malgrado
avesse ricevuto lettere rogatorie, trascurasse l’arresto di un malfattore
che si fosse rifugiato nella detta provincia; la medesima pena era comminata
agli ufficiali del giudice. In tempi più recenti, nonostante il
plebiscitario esito della consultazione referendaria tenutasi sul tema nel
1987, la legge n. 117 del 1989 di fatto snaturò e vanificò il diritto al
conseguimento del risarcimento del danno per una condotta dolosa o colposa
del giudice. Essa stravolse il risultato del referendum e il principio
stesso della responsabilità personale del magistrato, per affermare quello,
opposto, della responsabilità dello Stato: vi si prevede che il cittadino
che abbia subìto un danno ingiusto a causa di un atto doloso o gravemente
colposo da parte di un magistrato non possa fargli causa, ma debba invece
chiamare in giudizio lo Stato e chiedere ad esso il risarcimento del danno.
Se poi il giudizio sarà positivo per il cittadino, allora sarà lo Stato a
chiamare a sua volta in giudizio il magistrato, che, a quel punto, potrà
rispondere in prima persona, ma solo entro il limite di un terzo di
annualità di stipendio, (di fatto è un quinto, oltretutto coperto da una
polizza assicurativa che equivale intorno ai cento euro annui). Quella legge
ha così raggiunto il risultato di confermare un regime di irresponsabilità
per i magistrati. L’inadeguatezza della legge n. 117 del 1989 è dimostrata
dal fatto che, a decenni dalla sua entrata in vigore, non si registra una
sola sentenza di condanna dello Stato italiano per responsabilità colposa
del giudice, nonostante le numerosissime sentenze con cui la Corte europea
dei diritti dell’uomo ha acclarato inadempimenti dello Stato italiano.
L’esigenza di rivedere la legge n. 117 del 1989 viene ora avvertita anche al
fine di dare piena attuazione alla novella costituzionale approvata sul tema
del giusto processo, nonché al fine di dare concreta esecuzione del
principio consacrato dall’articolo 28 della Costituzione: tali norme
subiscono ingiustificabili limitazioni in riferimento alla responsabilità
dei giudici. Il sistema della responsabilità civile dei magistrati in Italia
deroga quindi alla “grande regola” della responsabilità aquiliana, secondo
quanto è riconducibile agli altri pubblici funzionari (ai sensi
dell’articolo 28 Cost. e con la possibilità di agire in regresso verso lo
Stato). La peculiarità giustificata ai magistrati è quella della
delimitazione al dolo ed alla colpa grave (articolo 3), e la garanzia di
insindacabilità (articolo 2) che fu riconosciuta nella citata sentenza n. 18
del 1989, per la quale “l’autonomia di valutazione dei fatti e delle prove e
l’imparziale interpretazione delle norme di diritto (…) non può dar luogo a
responsabilità del giudice”. Il rapporto tra questa peculiarità e la
denegata giustizia è però assai problematico. La responsabilità civile del
giudice sussiste in un giudizio procedurale, non del merito, ad esempio per
la violazione di termini perentori per l’uso delle intercettazioni, custodia
cautelare, notifica di atti o precetti, prescrizione dei reati. Stante
questo vincolo, con la normativa attuale restano necessari comunque due
procedimenti separati (coi relativi tre gradi di giudizio), uno per
l’ammissibilità, perché la richiesta non deve sindacare l’autonomia del
giudice, e uno vero e proprio per la richiesta di risarcimento. Detto
questo, cosa ne sa la massa di come si abilita alla funzione giudiziaria e
quali siano le capacità, anche psicologiche di chi giudica? Cosa ne sa la
massa di cosa significa errore giudiziario e questo riguarda prima o poi una
persona (anche se stessi, non solo gli altri) e la sua dignità nella società
ed in carcere, dove torture e violenze sono relegate all’oblio o al segreto
del terrore? Cosa ne sa la massa se chi (i giornalisti), dovendo loro dare
corretta e completa informazione, non sa tutelare nemmeno se stesso?

Un sondaggio rivela come l’87% vuole che i magistrati paghino per i propri
errori, scrive Arnaldo Ferrari Nasi su “Panorama”. Il governo è stato
battuto a favore di un emendamento che modifica l’articolo 2 della legge
117/88 sul risarcimento dei danni causati nell’esercizio delle funzioni
giudiziarie. Cos’è la 177/88? E’ la cosiddetta Legge Vassalli sul
“risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie
e responsabilità civile dei magistrati”. Comporta che, al pari di altre
professioni, i magistrati possano rispondere risarcendo il danno qualora
compiano un atto con dolo o colpa grave, parificando la loro responsabilità
a tutti gli impiegati civili dello Stato. In caso di colpa semplice o errore
è lo Stato a risarcire le vittime. Una legge che, quando promulgata, venne
giudicata troppo morbida da diverse parti e, soprattutto, che travisava i
risultati del referendum dell’anno precedente. Referendum che stravinse con
l’80% dei “Sì”. Referendum presentato dai Radicali allo scopo di abrogare le
opportune norme per stabilire che ci esistesse una responsabilità civile
anche per i giudici. Del resto, dopo oltre venticinque anni, i casi di
risarcimento effettivo da parte di magistrati si possono contare sulla punta
delle dita. Invece, i cittadini sono oggi della stessa opinione di
venticinque anni fa. Sia quelli che sono nel frattempo invecchiati, sia
quelli che nel 1987 non erano ancora nati. Più precisamente il nostro ultimo
dato a rilevato lo scorso anno ci dice che l’87% degli italiani maggiorenni
è d’accordo con l’affermazione: “un magistrato che sbaglia dovrebbe essere
responsabile della propria azione”. Il dato è perfettamente concorde con la
nostra rilevazione precedente del 2010, i cui risultati davano 86%. Sul
tema, dunque, il pensiero degli italiani è chiaro e non muta almeno da un
quarto di secolo. Ma non ce l’anno fatta vincendo un referendum e non ce
l’anno fatta con un Berlusconi fortissimo. Ci riusciranno oggi?

Eppure in Italia c’è sempre chi, per ideologia o per timore di ritorsioni, è
genuflesso alle toghe. Ue, il governo delle toghe battuto alla Camera sulla
responsabilità civile toghe toghe. Norme più dure per gli errori dei
giudici. Insorgono Anm e Csm: “A rischio la nostra indipendenza”. Duro
scontro Pd-5S. Renzi: “Correggeremo in Senato”, scrive “La Repubblica”. Il
governo e la maggioranza sono stati battuti, in un voto a scrutinio segreto,
nell’esame sulla legge europea 2013-bis alla Camera sulla responsabilità
civile delle toghe. E’ infatti passato un emendamento della Lega, a prima
firma di Gianluca Pini, e a cui governo e relatore avevano dato parere
contrario. Riscrive l’articolo 26 sulla responsabilità civile dei
magistrati, inasprendo di fatto le pene nei confronti dei giudici. I voti
favorevoli sono stati 187, mentre 180 i contrari. Sette voti di differenza
che pesano, visto che alla Camera governo e maggioranza contano su un ampio
sostegno. L’emendamento modifica l’articolo 2 della legge dell’88 sul
risarcimento dei danni causati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e
sulla responsabilità civile dei magistrati. Una questione sulla quale il
presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ricorda che l’indipendenza
dei giudici non è un privilegio. Il premier Matteo Renzi però, parlando con
i suoi da Pechino, del voto con il quale la maggioranza è stata battuta,
minimizza:”E’ una tempesta in un bicchiere d’acqua, il voto segreto è
occasione di trappoloni, ma le reazioni che vedo sono esagerate”, dice il
premier per il quale la norma sarà modificata a scrutinio palese al Senato.
Dura la reazione dell’Associazione nazionale magistrati che ha definito il
voto “un fatto grave”. Il presidente dell’Anm, Rodolfo Sabelli, ha detto che
: “in un momento che vede la magistratura fortemente impegnata sul fronte
del contrasto alla corruzione nelle istituzioni pubbliche, questa norma
costituisce un grave indebolimento della giurisdizione”. Con l’emendamento
votato oggi “si vorrebbe reintrodurre ciò che non si riuscì ad approvare nel
2012 – sottolinea Sabelli – cioè un’introduzione dell’azione diretta di
responsabilità civile che non ha eguale in nessun ordinamento occidentale e
che presenta evidenti profili di incostituzionalità”. Parte all’attacco
anche il vice presidente del Csm, Michele Vietti che dice: “E’ in gioco non
un privilegio, ma l’indipendenza di giudizio del magistrato”. Mentre,
secondo l’Associazione magistrati della Corte dei conti “l’emendamento
all’art. 26 della legge comunitaria, che prevede l’azione diretta di
responsabilità civile nei confronti del magistrato, rileva come la stessa,
oltre ad essere non in linea con la legislazione della maggior parte degli
Stati membri dell’Ue, costituisce un gravissimo vulnus all’autonomia e
all’indipendenza dei giudici”. Critico anche il legale Gianluigi Pellegrino.
“Si crea un cortocircuito che può bloccare ogni giudizio. Se è giusto, come
chiede l’Europa prevedere sistemi più efficaci di ristoro per gli errori
giudiziari, è assurdo e tribale prevederlo con azioni dirette della parte
contro i giudici e peraltro anche per mero errore di diritto – spiega
l’avvocato Pellegrino – . Piuttosto bisogna proporre un ulteriore
rafforzamento del controllo disciplinare per tutte le giurisdizioni e nel
rispetto dei principi di autogoverno”. Nell’emendamento approvato
dall’assemblea si legge, che “chi ha subito un danno ingiusto per effetto di
un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in
essere dal magistrato in violazione manifesta del diritto o con dolo o colpa
grave nell’esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può
agire contro lo Stato e contro il soggetto riconosciuto colpevole per
ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non
patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale. Costituisce
dolo il carattere intenzionale della violazione del diritto”. “La norma è
passata con almeno 80 voti del Pd, quindi prima di sfidare la volontà
popolare invito i democratici a sfidarsi internamente, mettendo d’accordo la
parte destra del cervello con quella sinistra, per poi formulare una
proposta alternativa sul tema”, ha detto Pini, dopo il voto. Prova a gettare
acqua sul fuoco il Pd: il provvedimento deve “ancora passare al Senato e lì
modificheremo la norma”, garantisce in Aula Ettore Rosato. Mentre Roberto
Speranza, presidente dei deputati Pd parla di “un vero e proprio colpo di
mano del centrodestra con la complicità del M5S”. “In parlamento esistono
proposte sulla responsabilità civile dei magistrati e ritengo siano maturi i
tempi affinchè la questione venga affrontata in modo serio e rigoroso –
aggiunge Speranza – . Penso sia oltremodo sbagliato trattare tale tema in
modo frettoloso, attraverso un emendamento alla legge comunitaria”. Forza
Italia, come del resto la Lega, esulta. “Quando il centrodestra trova i
contenuti batte il parlamento e batte anche Renzi”, dice la deputata azzurra
Daniela Santanchè, che aggiunge: “Al bando dunque le poltrone e gli
organigrammi della sinistra, la forza delle nostre idee riflette fedelmente
la volontà degli italiani. D’altro canto, l’astensione del M5S è del tutto
vergognosa e ribadisce la natura giustizialista dei grillini”. Anche i 5
Stelle mostrano soddisfazione: “La nostra decisione di astenerci ha tirato
fuori tutta l’ipocrisia del Pd”, dice il grillino Andrea Colletti.A fine
aprile era stato bocciato il disegno di legge sulla responsabilità civile
dei magistrati, voluto dal centrodestra. I senatori del Pd, i parlamentari
grillini e gli ex 5 Stelle avevano approvato, in commissione Giustizia del
Senato, l’emendamento del M5S che cancella l’art.1, cioè il cuore del testo.
Giudici, Giachetti (Pd): “Ho votato sì perché norma non colpisce magistrati
perbene”. “Pensiamo ai casi di Tortora e Scaglia”, dice il vicepresidente
della Camera Roberto Giachetti, Pd, che oggi ha contribuito con il suo voto
(palese) a far passare l’emendamento leghista sulla responsabilità civile
dei giudici e quindi a battere il governo, 187 a 180. “Il tempo per una
scelta è maturo anche nel Partito democratico”, aggiunge, “non so perché nel
gruppo non ci sia stato un dibattito. Nessuno scambio con il centrodestra”.

E comunque in ogni giornalista c’è il comunista che è in sè, ed in queste
occasioni esce fuori. Camera, passa la responsabilità civile dei Pm. Il
“messaggio” della politica alle inchieste. La responsabilità civile dei
magistrati, contro il parere del Governo, passa a Montecitorio con 187 sì e
le decisive astensioni di M5S e Sel. Il centrodestra esulta, il Pd annuncia
cambiamenti al Senato. Ma già nel 2012, con la maggioranza di centrodestra,
l’emendamento era stato approvato, scrive Susanna Turco su “L’Espresso””.
L’Anm parla di fatto grave, il centrodestra esulta, il Pd piuttosto
imbarazzato fa sapere che al guasto si riparerà al Senato, senz’altro,
mentre il senatore Maurizio Gasparri promette di combattere “strenuamente”
per tenerlo così come è. Pare una giornata d’altra epoca, alla Camera.
Proprio mentre la giunta per le Autorizzazioni, presieduta da Ignazio La
Russa, apre il faldone relativo alla richiesta di arrestare Giancarlo Galan
(e dal sì all’arresto di Francantonio Genovese è passato meno di un mese) in
Aula, contro il parere del governo, i deputati approvano una norma che
introduce la responsabilità diretta dei magistrati. Il principio, cioè,
secondo cui se un magistrato sbaglia ci si può rivalere direttamente su di
lui, invece che sullo Stato come accade ora secondo la procedura (peraltro
complessa) della legge Vassalli. Il magistrato che ha sbagliato paghi: è uno
dei caposaldi classici del berlusconismo che fu, mentre i democratici – pur
concordando sulla necessità di rinnovare la norma del 1988 – hanno tutta
un’altra idea su come farlo. A presentare il testo incriminato, come
emendamento alla legge comunitaria in discussione a Montecitorio, è il
leghista Gianluca Pini. Ma la sua approvazione in Aula, con 187 sì contro
180 no, e l’astensione dichiarata dei Cinque stelle, suona almeno in parte
come una risposta della politica all’accanirsi della magistratura con
inchieste di ogni ordine e grado, dall’Expo e Mose in avanti. “In questo
momento, questa norma costituisce un grave indebolimento della
giurisdizione”, dice il presidente Anm Rodolfo Sabelli. “Un vero e proprio
atto intimidatorio”, aggiunge il presidente Pd in commissione Giustizia
Donatella Ferranti, puntando l’indice contro chi, “proprio ora, cerca di
intimorire i magistrati che con coraggio hanno aperto vari fronti di
indagine sui fenomeni corruttivi dilaganti negli appalti pubblici”.
Interpretazione, questa, valida fino a un certo punto. E’ tragicamente vero,
infatti, che lo stesso testo sulla responsabilità dei magistrati, sempre
firmato da Gianluca Pini, sempre come emendamento alla legge comunitaria,
era stato presentato ed approvato poco più di due anni fa. Era il 2 febbraio
2012, a Palazzo Chigi regnava Monti, e l’Aula di Montecitorio dava il via
libera al testo Pini con 264 sì e 211 no (un solo astenuto). Allora come ora
il voto era segreto. Ma il rapporto di forze tra centrosinistra e
centrodestra era invertito. E i Cinque Stelle, in Parlamento, nemmeno ci
stavano. Dunque se è vero che si tratta di un segnale ai magistrati, è un
segnale più trasversale e meno legato al momento di quanto non paia sulle
prime. Tanto più che, mentre la responsabile giustizia del Pd Alessia Morani
giura che oggi il gruppo è stato compatto nel votare contro, è pur vero che
il vicepresidente democratico della Camera Roberto Giachetti rivendica il
suo sì (quella sulla responsabilità civile è una antica battaglia radicale),
e soprattutto che i deputati del centrodestra presenti in Aula, secondo i
calcoli del forzista Simone Baldelli che è uno preciso, non sono più di
ottanta. Per arrivare a 187 mancano, dunque, un centinaio di voti
all’appello: e anche mettendo un punto interrogativo sui vari gruppi minori,
i conti non tornano. La crepa, comunque, sarà sanata. Al Senato la norma
verrà cancellata dalla legge comunitaria, in attesa che il tema sia
affrontato a parte. I numeri ci dovrebbero essere perché anche i Cinque
stelle, tutti contenti per il blitz che ha “permesso di svelare l’ipocrisia
del Pd”, dicono che al Senato torneranno a votare no alla responsabilità
civile diretta dei magistrati, come hanno fatto a fine aprile a Palazzo
Madama, in asse col Pd e contro il centrodestra. Finirà insomma come due
anni fa: anche allora la norma Pini fu cancellata dall’altro ramo del
Parlamento. Resta da capire quando è che Renzi si deciderà a dare il via
libera alla riforma di questo come di altri punti dolenti del capitolo
giustizia. Proprio a fine aprile, a Porta a porta, il premier – pur
favorevole a cambiare la Vassalli – spiegò che “finché c’è un clima da
derby” e “finché ci sarà chi dice che la magistratura è il cancro dello
Stato”, “non ci potrà essere nessun intervento sulla giustizia”. Ecco,
insomma, un altro punto sul quale il rapporto con Berlusconi contiene una
pericolosa ambivalenza.

I sinistroidi vogliono tutelare i magistrati incapaci ed in malafede. Toghe
sporche. Pd e M5S bocciano la responsabilità delle toghe. In commissione
Giustizia si forma una nuova maggioranza. Il Pd vota un emendamento del M5S
che boccia la responsabilità civile dei magistrati, scrive Sergio Rame su
“Il Giornale”. Guai a toccare la magistratura. La sinistra si schiera
compatta e boccia il disegno di legge sulla responsabilità civile dei
magistrati fortemente voluto dal centrodestra. Democratici, grillini ed ex
Cinque Stelle hanno approvato in commissione Giustizia del Senato
l’emendamento degli stellati che cancella l’articolo 1, cuore del testo del
ddl. “Per i seguaci di Renzi e Grillo – tuona il senatore di Forza Italia,
Lucio Malan – i magistrati devono continuare ad essere gli unici cittadini
che non subiscono alcuna conseguenza per i danni provocati dai loro errori,
anche se clamorosi”. “Siamo al paradosso. Ma qual è la maggioranza di questo
governo?”. A chiederlo è la senatrice di Forza Italia Elisabetta Alberti
Casellati. Perchè sistematicamente in commissione Giustizia il Partito
democratico vota insieme al Movimento 5 stelle, mentre Ncd, Udc e Scelta
civica vengono a trovarsi all’opposizione. Lo stesso schema si è verificato
oggi. Con un colpo di mano in commissione Giustizia a Palazzo Madama,
piddini e grillini hanno affossato il ddl sulla responsabilità civile dei
magistrati votando un emendamento del gruppo Cinque Stelle che sopprime il
cuore del provvedimento. “A parole i grillini dicono che la responsabilità
dei magistrati va affermata – continua la Casellati – non si può continuare
così. Quando le promesse prendono il posto dei programmi vuol dire che
andiamo verso la decadenza”.

Quanto alla responsabilità civile dei magistrati, in teoria, ci sarebbe la
Legge n. 117/1988, voluta dall’allora ministro della Giustizia, Giuliano
Vassalli, che stabilisce un limite di 2 anni per l’esercizio dell’azione;
prevede un filtro di ammissibilità per i ricorsi e attribuisce allo Stato la
possibilità di rivalersi, per i danni liquidati a risarcimento di un errore
giudiziario, sullo stipendio del magistrato colpevole (con il tetto massimo
di 1/3). Stefano Livadiotti, autore del libro Magistrati l’ultracasta, ci fa
notare come, in ossequio a tale Legge, dal 1988 al 2011 in Italia siano
stati presentati solo 400 ricorsi (in 23 anni!!!) per risarcimento danni da
responsabilità dei giudici. Di questi, il 63% sono stati dichiarati
inammissibili; il 12% sono in attesa di pronuncia sull’ammissibilità; il
16,5% sono in fase di impugnazione di decisione di inammissibilità e solo
l’8,5% sono state dichiarate ammissibili. Di questo 8,5%, vale a dire di 34
ricorsi, 16 sono ancora pendenti e 18 sono stati giudicati: lo Stato ha
perso solo 4 volte, pari all’l,1% dei già pochissimi ricorsi presentati. Da
zero a uno: meno di 0,5. Dulcis in fundo. Il World Justice Project è
un’organizzazione non profit, indipendente, che ogni anno, al pari della
Commissione europea, stila un indice, denominato «Rule of Law Index», di
valutazione dell’aderenza del sistema giudiziario degli Stati alle regole
del diritto. In particolare, le valutazioni sono svolte sulla base di 4
parametri: l’affidabilità, la credibilità e l’integrità morale dei giudici;
la chiarezza e la capacità delle Leggi di garantire i diritti fondamentali,
tra cui la sicurezza di persone e cose; il grado di accessibilità,
efficienza ed equità del processo; la competenza e l’indipendenza dei
magistrati e l’adeguatezza delle risorse messe a loro disposizione. I
punteggi per gli Stati sono compresi in un range che va da zero a uno. Per
nessuno dei 4 indicatori l’Italia supera lo 0,5, eccezion fatta per
l’adeguatezza delle risorse… Se la qualità, l’indipendenza e l’efficienza
della giustizia giocano un ruolo fondamentale nel riportare fiducia negli
Stati e ritornare a crescere, come ci ha detto il commissario Reding,
rimbocchiamoci le maniche: lavoriamo per migliorarla. Con la raccolta delle
firme, ma anche, in parallelo, dando veste normativa alle proposte di
riforma della giustizia avanzate dalla commissione dei saggi voluta, prima
della formazione del governo Letta, dal presidente Napolitano. Dipende solo
da noi.

La vera anomalia italiana: l’impunità di tutti i giudici. Un referendum
promosso dai radicali punta a riconoscere la responsabilità civile dei
magistrati: in vent’anni sono stati ritenuti colpevoli per danni ai
cittadini appena 4 volte, scrive Andrea Cuomo su “Il Giornale”. Attualmente
i magistrati in Italia sono praticamente irresponsabili da un punto di vista
sia civile sia penale per i danni arrecati al cittadino nell’esercizio delle
loro funzioni. In realtà un referendum del 1987 aveva abrogato gli «articoli
55, 56 e 74 del codice di procedura civile approvato con regio decreto 28
ottobre 1940, n. 1443» introducendo il principio della responsabilità
civile. Ciò in seguito all’onda emotiva sollevata dalla incredibile vicenda
di Enzo Tortora, vittima del più clamoroso (ma non dell’unico) errore
giudiziario del dopoguerra. La volontà popolare si espresse forte e chiara
in quell’occasione: votò il 65,10 per cento del corpo elettorale e i «sì»
vinsero con l’80,20 per cento anche grazie all’impegno dello stesso Tortora,
che da parlamentare radicale si impegnò in prima persona perché ad altri non
toccasse quello che era capitato a lui per un’incredibile somma di equivoci,
casualità e leggerezze. Un successo, quello del referendum di 26 anni fa,
sbianchettato da una legge confezionata in fretta e furia: la legge
Vassalli, varata il 13 aprile 1988 (un mese prima della morte di Tortora) e
tuttora in vigore, che formalmente ammette il risarcimento per il cittadino
vittima di malagiustizia, ma di fatto lo rende una chimera. La legge
Vassalli, infatti, ammette che chiunque abbia «subito un danno ingiusto per
effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario
posto in essere dal magistrato nell’esercizio delle sue funzioni ovvero per
diniego di giustizia» possa agire per vedersi riconosciuto un risarcimento,
ma agendo non contro il magistrato bensì contro lo Stato, che può poi
rivalersi a sua volta contro il magistrato colpevole nella misura di un
terzo. Non può però dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione
di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove, ciò
che di fatto esclude gran parte delle fattispecie. In pratica si può dar
luogo a risarcimento solo in casi eccezionali (dolo o colpa grave), ciò che
rende di fatto non esercitabile l’azione risarcitoria da parte dei
cittadini. Il mancato riconoscimento della responsabilità civile dei giudici
è tra l’altro costata all’Italia anche le censure della Corte di Giustizia
dell’Ue. La questione è da anni oggetto di un dibattito acceso tra i fautori
della responsabilità, che vedono in questo principio un inderogabile segnale
di civiltà, e coloro che invece vedono come il fumo negli occhi la
possibilità che un magistrato che sbagli possa rimborsare il cittadino
vittima della sua negligenza. Il «partito dei giudici» vede infatti il
referendum come l’ennesima minaccia all’indipendenza del potere giudiziario
e fa notare come in molti Paesi, come la Gran Bretagna, la magistratura goda
di totale immunità. In coda alla precedente legislatura un emendamento alla
legge del 13 aprile 1988 che intendeva allargare il risarcimento dei danni
cagionati nell’esercizio nelle funzioni giudiziarie anche ad alcuni casi di
«interpretazione di norme di diritto e di valutazione del fatto e delle
prove» (come quando ci si trova di fronte a negligenza inescusabile che
porta all’affermazione di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente
esclusa dagli atti del procedimento) non fece in tempo però a terminare
felicemente il suo iter parlamentare, lasciando in vita un’anomalia tutta
italiana.

Il rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l’efficienza della
giustizia del Consiglio d’Europa) condanna il nostro sistema giudiziario.
Da noi occorrono 493 giorni per un processo civile in primo grado, contro i
289 della Spagna, i 279 della Francia e i 184 della Germania. Milioni e
milioni di procedimenti pendenti, scrive “Il Giornale”. La situazione viene
ben descritta da Stefano Livadiotti,una delle firme più note di “L’Espresso”
nel suo libro “Magistati-l’Ultracasta”, dive svela particolari e retroscena
inquietanti su quelle toghe che da sempre detengono il potere in Italia.
Vostro Onore lavora 1.560 ore l’anno, che fanno 4,2 ore al giorno. Gli esami
per le promozioni? Una farsa per il giornalista. Che racconta come i giudici
si spartiscono le poltrone e riescono a dettare l’agenda alla politica.
Merita pure di essere sottolineato che l’attuale normativa prevede che dopo
27 anni di servizio, tutti i magistrati – indipendentemente dagli incarichi
e dai ruoli – raggiungano la massima qualifica di carriera possibile. Solo
sulla base della “anzianità”, quindi. I verbali del Consiglio superiore
della magistratura dimostrano che dal 1° luglio 2008, al 31 luglio 2012,
sono state fatte, dopo l’ultima riforma delle procedure, che avrebbe dovuto
renderle più severe, 2409 valutazioni sotto questo aspetto. Quante sono
state giudicate negative? Tre. I magistrati del Belpaese guadagnano più di
tutti i loro colleghi dell’Europa continentale, e al vertice della
professione percepiscono uno stipendio pari a 7,3 volte quello dei
lavoratori “medi”. Gli inquirenti tedeschi si accontentano di un multiplo
più ragionevole: 1,7. Ma quanto costa la macchina giudiziaria agli italiani?
Per tribunali, avvocati d’ufficio e pubblici ministeri, 73 euro per abitante
all’anno (dato pubblicato nel 2010 dal Cepej), contro una media europea di
57,4. Perché così tanto? Eppure i quattrini ci sono. Peccato, però, che come
tutto il resto, i “piccioli” vengano gestiti male. Da noi ci sono 2,3
Palazzi di Giustizia ogni 100 mila abitanti; in Francia uno. Ogni togato
dispone di 3,7 addetti tra portaborse e presunti factotum dei quali si
potrebbe tranquillamente fare a meno. In Germania, 2,7. Uno in meno quindi.
Non pagano né civilmente né penalmente, come già detto. Ma almeno rischiano
sanzioni disciplinari? No, spiega Livadiotti, neanche quelle. Cane non
mangia cane. Qualunque esposto venga rivolto contro un magistrato, passa
prima al filtro preventivo della Procura Generale della Cassazione, che
stabilisce se c’è o no il presupposto per avviare un procedimento. Ebbene,
tra il 2009 e il 2011 sugli 8.909 magistrati in servizio, sono pervenute
5.921 notizie di illecito. Quante ne avrà mai potute archiviare il PG? Ben
5.498, cioè il 92,9%. Numeri imbarazzanti. Ma non basta. Quanti giudici sono
stati sanzionati? Nessuno. Tra il 2001 e il 2011, il giornalista spiega che
i giudici ordinari destituiti sono stati appena 4. Sì, esattamente, quattro.
Lo 0,28%. Quelli rimossi negli ultimi 11 anni dal Csm? 8 in totale. E la
legge sulla responsabilità civile che permette a chi subisca un errore
giudiziario di essere risarcito? In poche parole, va a farsi benedire. E’ la
norma 117 dell’88, scritta dal ministro Vassalli. Nell’arco di 23 anni sono
state proposte in Italia 400 cause di richiesta di risarcimento danni per
colpe specifiche dei togati. Di queste, 253, pari al 63%, sono state
dichiarate inammissibili con provvedimento definitivo. Solo 49, cioè il 12%,
sono in attesa di pronuncia. 70, pari al 17%, sono in fase di impugnazione.
34, ovvero l’8,5%, sono state dichiarate ammissibili. Di quest’ultime, 16
sono ancora pendenti e 18 sono state decise. Peccato che lo Stato abbia
perso solo 4 volte. Ma quanto guadagnano, in definitiva, i giudici? Un
consigliere Csm, sommando stipendi base, gettoni, rimborsi e indennizzi,
lavorando 3 settimane su 4 dal lunedì al giovedì, guadagna 2.700 euro per
ogni giorno effettivo di impiego. Su questi dati, Livadiotti non è mai stato
smentito. Né con i fatti, né con le parole. Ebbene sì, tutto questo è lo
scandalo degli scandali. La macchina della giustizia dovrebbe cambiare in
tutto e per tutto, essere rivoltata come un calzino. I veri privilegiati,
anche in tempo di crisi, sono loro, i magistrati. La vera grande colpa di
Berlusconi è quella di non aver mai introdotto, in 10 anni di governo, una
legge che prevedesse almeno in parte la responsabilità dei giudici. Questa,
nel 2013, ancora non è prevista. E tutti, politici compresi, in Italia sono
costretti a sottostare al potere incontrastabile dei magistrati. Prigionieri
di una casta che rifiuta di autoriformarsi per conservare privilegi, poteri
e un’immunità che non ha pari al mondo.

I Radicali utilizzano come bandiera di questa parte del referendum Enzo
Tortora, il presentatore tv vittima di un gravissimo caso di malagiustizia a
causa del quale, innocente, passò anni in carcere e morì poco dopo la
sentenza che lo assolveva definitivamente. Il quesito quindi ha lo scopo di
“rendere più agevole per il cittadino l’esercizio dell’azione civile
risarcitoria (indiretta) nei confronti dei magistrati”. La responsabilità
civile del magistrato non è assolutamente sanzionata dal nostro ordinamento,
nonostante il referendum del 1987 (dove votò per il Si oltre l’80% degli
elettori) e la legge che ne scaturì (l.13 aprile 1988 n. 117) fu
semplicemente una legge truffa, che non ha affatto risolto il problema.
Anche lo scandalo dei magistrati “fuori ruolo” deve cessare senza starci
troppo a pensare: in un paese dove c’è un arretrato mostruoso di processi e
dove una sentenza civile ci mette mediamente 8 anni per arrivare in porto,
ci permettiamo il lusso di centinaia di magistrati collocati fuori ruolo,
perché applicati presso i ministeri o perché eletti in Parlamento o per
cento altre strane ragioni. Bisogna stabilire una volta per tutte che i
magistrati possono candidarsi solo dopo essersi dimessi dalla magistratura
(ed ovviamente non rientrarci dopo). Quanto a quelli applicati presso i
ministeri, appare evidente quanto sia inopportuno questo intreccio fra
esecutivo e giudiziario, anche sul piano della separazione dei poteri, così
spesso invocata a proposito ed a sproposito. Chi è contrario a questa norma
sottolinea come in questo modo i magistrati non si sentirebbero più liberi
di svolgere la loro azione penale, temendo di dover pagare (in senso lato e
in senso letterale) per ogni loro errore.

E a proposito di privilegi, benché non sia mai stata applicata la norma
sulla responsabilità civile dei magistrati (la 177 del 1988 varata sull’onda
dell’emozione che suscitò il caso Tortora), le toghe nostrane sono riuscite
anche a stipulare un accordo molto vantaggioso con le assicurazioni.
Siglato da una parte dall’ ANM e dall’altra dalla BNL Broker
Assicurazioni: con soli 138,60 euro all’anno, si sono così messi al riparo
dalla possibilità di dover risarcire di tasca propria l’eventuale vittima di
errori giudiziari. Eventualità invero remota visto che la legge voluta da
Vassalli e Craxi (a cui gli interessati dimenticarono di attestare eterna
gratitudine), mette a carico della collettività l’eventuale errore per colpa
grave del singolo. Ma nella vita non si sa mai.

Tanto fumo per niente. Il problema vero e taciuto non è chi paga per
l’errore commesso dal magistrato (se solo lo Stato od anche il magistrato),
ma se e quando la responsabilità è acclamata. Per i poveri mortali il
principio di responsabilità afferma che chi per dolo o colpa semplice arreca
danno ingiusto ad altri: paga. Per i magistrati questo non vale. Sempre al
di la ed al di fuori della legge. La normativa a cui tutti vogliono mettere
mano, da sempre ed a parole, prevede che se il magistrato sbaglia, ma solo
con colpa grave, quindi mai, non è lui a pagare, ma lo Stato, ossia noi
cittadini.

Scherzi della politica e dell’informazione: ipocriti e codardi. Fanno
apparire un cataclisma, quello che è una piccola toccatina. Dal 1987, con
l’approvazione del referendum, si cerca di mettere argine all’abuso di
potere della magistratura, ma niente: nonostante lodi e progetti di legge,
non si era mossa foglia. Ogni tentativo era andato a sbattere sulla casta
delle toghe e sui loro alleati politici e mediatici, che avevano il comune
obiettivo di abbattere Berlusconi. Ricordate? Toccare i giudici era
considerato un attentato alla Costituzione. Poi all’improvviso, quando meno
te lo aspetti, cioè il 2 febbraio 2012, ecco arrivare un voto segreto che
introduce la responsabilità civile dei magistrati: chi sbaglia pagherà di
persona, come avviene per qualsiasi cittadino lavoratore. L’idea, cioè
l’emendamento alla legge comunitari 2011, è della Lega, ma coperti dal
segreto l’hanno sostenuta in massa a destra come a sinistra, come
probabilmente addirittura da alcuni esponenti dell’IDV. Quei furbetti del
governo Monti, per bocca del Guardasigilli, hanno fatto la parte degli
indignati perché anche a loro i pm fanno un po’ paura. Prima hanno chiesto
al parlamento di votare contro. Poi, smentiti dalla loro maggioranza Pd-Pdl,
si sono augurati, sempre per bocca della ministra della Giustizia Severino,
che il Senato bocci la legge. I magistrati sono furenti, ovviamente. Traditi
pilatescamente dal governo dei professori e da una parte della sinistra che
dopo averli usati in chiave antiberlusconiana adesso li scarica. Ma hanno
poco da urlare, le toghe. Non si capisce perché possano essere toccati
presunti privilegi di tassisti, benzinai, farmacisti, pensionandi e non i
loro. Del resto la Camera non ha fatto altro che accogliere, con 25 anni di
ritardo, la volontà degli italiani che in un referendum del 1987 avevano
(invano) deciso che i magistrati dovevano pagare personalmente per i loro
errori e per dolo o colpa semplice. Sulla responsabilità civile la Camera
vota in linea con l’Europa, facendo passare un emendamento della Lega che
prevede la possibilità di fare ricorso contro giudici solo nel caso agiscano
con dolo o colpa grave. Una posizione sacrosanta, che garantisce il giusto
processo e tutela i cittadini e, questa l’indicazione dei vertici Ue, può
sanare un grave difetto di sistema della giustizia italiana che allontana
gli investitori stranieri. Ecco perché migliorare il processo civile può
significare più competitività e non solo più “civiltà” (basti ricordare che
da gennaio 2001 a febbraio 2010 lo Stato ha sborsato 423 milioni di euro di
risarcimenti per custodie cautelari e arresti preventivi illegittimi, senza
contare gli errori giudiziari.

Sì alla responsabilità civile dei magistrati. La Camera ha approvato
l’emendamento presentato dal leghista Gianluca Pini votando contro il parere
del Governo. A scrutinio segreto voluto dalla Lega, l’emendamento è passato
con 264 sì e 211 no. Immediata la reazione delle opposizioni. Il leader Idv
Antonio Di Pietro ha invocato il ricorso ai “forconi” da parte degli
italiani, mentre il futurista Italo Bocchino ha definito il voto di
Montecitorio “la vendetta della Casta” nei confronti della magistratura.
Anche l’Associazione Nazionale Magistrati ha usato toni assai aspri
criticando la decisione dei deputati. Si sa. In Italia i magistrati
dovrebbero applicare la legge, e spesso non ci riescono, ma vorrebbero anche
emanarla. La norma prevede che “chi ha subito un danno ingiusto per effetto
di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in
essere dal magistrato in violazione manifesta del diritto o con dolo o colpa
grave (non semplice colpa come per i comuni mortali, compresi i medici, gli
ingegneri, ecc.) nell’esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di
giustizia può agire contro lo Stato e contro il soggetto riconosciuto
colpevole per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di
quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale.
Costituisce dolo il carattere intenzionale della violazione del diritto”.
“Ai fini della determinazione dei casi in cui sussiste una violazione
manifesta del diritto – si legge nel testo presentato dal deputato Pini –
deve essere valutato se il giudice abbia tenuto conto di tutti gli elementi
che caratterizzano la controversia sottoposta al suo sindacato con
particolare riferimento al grado di chiarezza e di precisione della norma
violata, al carattere intenzionale della violazione, alla scusabilità o
inescusabilità dell’errore di diritto. In caso di violazione del diritto
dell’Unione europea, si deve tener conto se il giudice abbia ignorato la
posizione adottata eventualmente da un’istituzione dell’Unione europea, non
abbia osservato l’obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’articolo
267, terzo paragrafo, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea,
nonchè se abbia ignorato manifestamente la giurisprudenza della Corte di
giustizia dell’Unione europea”.

Insomma nulla è cambiato confronto a prima, solo l’eventualità di chiamare
in causa direttamente il magistrato che, con la statuizione vivente, semmai
si acclamerà l’errore da parte di un suo collega (sic), mai sarà chiamato a
rispondere per i suoi errori. “Dal 1988 ad oggi, su 400 cause avviate, ci
sono state solo 4 condanne di giudici”, ha spiegato Enrico Costa (Pdl) dopo
il sì dell’Aula alla responsabilità civile dei magistrati oltre i casi di
dolo e colpa grave. “Di queste 400 – aggiunge Costa – 253 sono state
dichiarate inammissibili, 49 attendono pronuncia di ammissibilità e 70
attendono l’impugnazione per la decisione di inammissibilità. 34 risultano
ammissibili, ma di queste 16 sono pendenti e 14 respinte”. Il governo, come
scritto, si era detto contrario all’emendamento leghista ribadendo però
“l’impegno ad affrontare il tema della responsabilità dei magistrati nel
quadro di una discussione organica ed in tempi rapidi, in una logica di
insieme nella debita sede e in maniera organica”. Lo ha ribadito il ministro
per le Politiche comunitarie Enzo Moavero prima del voto, spiegando che “la
legge comunitaria mal si presta ad affrontare tematiche di respiro più ampio
rispetto al mero recepimento di normative. La sentenza della Corte di
Giustizia Ue richiamata dall’emendamento – ha aggiunto – si riferisce a
questioni di diritto europeo”. Con l’approvazione dell’emendamento è finita
con Antonio Di Pietro a gridare contro una «maggioranza trasversale
piduista» e l’Associazione nazionale magistrati a denunciare una «norma
incostituzionale» contro la quale il sindacato delle toghe è pronto alle
«più estreme forme di protesta». A partire dallo sciopero. A far infuriare
l’ex pm e l’Anm, il via libera dell’Aula di Montecitorio all’emendamento del
leghista Gianluca Pini che introduce la responsabilità civile dei magistrati
modificando la “legge Vassalli” del 1988, che finora ha consentito al
cittadino, in caso di errore grave delle toghe, di rivalersi esclusivamente
sullo Stato. I sì sono stati 264, i voti contrari si sono fermati a 211. Uno
l’astenuto: l’ex ministro prodiano Giulio Santagata (Pd). Un esito che ha
scatenato la caccia al franco tiratore con accuse incrociate tra Pdl e Pd.
In mezzo il governo, in realtà il vero sconfitto: in Aula Enzo Moavero,
ministro per gli Affari europei, aveva espresso parere contrario al
provvedimento. Moavero prende la parola perché Pini presenta l’emendamento
all’interno della legge comunitaria 2011. Motivazione: la sentenza della
Corte di giustizia europea del 24 settembre 2011 che ha condannato l’Italia,
«uno dei pochissimi Stati occidentali che non permette ad un cittadino che
ha subìto un’ingiustizia o un danno» di ricorrere contro le toghe. Moavero,
però, commette l’errore di schierare l’esecutivo contro l’emendamento.
Meglio affrontare la materia, spiega, «in una logica di insieme, nella
debita sede e in maniera organica». Un autogol perché di lì a poco
Gianfranco Fini accoglierà la proposta della Lega di votare a scrutinio
segreto: si tratta, spiega il presidente della Camera, di un tema che
«incide sull’articolo 24 della Costituzione». Protetti dal segreto, i
deputati si liberano dal vincolo dell’obbedienza al governo e l’emendamento
passa addirittura con 26 voti in più della maggioranza richiesta. È il
finimondo: Dario Franceschini, capogruppo del Pd, accusa il Pdl di aver
disatteso gli impegni. «Non possiamo veder rispuntare la vecchia
maggioranza», rincara la dose il segretario, Pier Luigi Bersani. Attacchi
che Fabrizio Cicchitto, capogruppo del Pdl, bolla come «ingiustificati». I
numeri gli danno ragione: sulla carta l’ex maggioranza (più i Radicali e
l’intero gruppo Misto) disponeva di 227 voti. Lo stesso Pdl, inoltre,
scontava 55 deputati assenti e 12 in missione. Conclusione: il testo non
sarebbe potuto passare senza i franchi tiratori di Pd e Terzo polo. Una
ricostruzione sposata da Di Pietro, che infatti denuncia l’esistenza di
«cinquanta traditori che hanno votato in modo difforme dai loro gruppi. E
cinquanta è un numero troppo grosso perché siano tutti di un solo gruppo:
vanno cercati tra quanti si erano dichiarati contro l’emendamento Pini.
Ovvero Pd, Udc, Fli e Idv». Fatto sta che il governo, incalzato dall’Anm che
parla di «ritorsione contro la magistratura», non ci sta e invoca un
intervento del Senato per correggere la norma. «Prendo atto della volontà
del Parlamento. Confido però che in seconda lettura si possa discutere
qualche miglioramento», avverte Paola Severino, ministro della Giustizia,
che dice no a «interventi spot». E Pier Ferdinando Casini, leader dell’Udc,
risponde all’appello: «La norma si potrà correggere. I magistrati aspettino
a scioperare». Parole che non piacciono ad Alfredo Mantovano, ex
sottosegretario all’Interno, che in Aula ha difeso l’emendamento: «Non
vogliono questa norma? Ne scrivano una migliore. Ad esempio un disegno di
legge organico al quale possa essere assicurata una corsia preferenziale. Il
governo dia seguito alla pronuncia di una larga parte della maggioranza che
sostiene l’esecutivo». Il Guardasigilli è nel mirino del Pdl, dove non sono
passate inosservate le sue ultime nomine. Dopo la scelta di due esponenti di
Magistratura democratica, la corrente più a sinistra dell’Anm, per le
poltrone di capo di gabinetto e capo degli ispettori di via Arenula, Filippo
Grisolia e Stefania Di Tomassi, il consiglio dei Ministri potrebbe rimuovere
Franco Ionta dal vertice del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione
penitenziaria. Al suo posto, Severino è pronta a proporre la nomina di
Giovanni Tamburino, presidente del tribunale di sorveglianza del Lazio.
Negli anni Ottanta, Tamburino è stato tra i fondatori del “Movimento per la
giustizia”, altra corrente di sinistra delle toghe.

Anche i magistrati italiani sbagliano, come tutti i comuni mortali. Spesso
violando la legge. E’ raro, però, trovare il nome di un magistrato
inquisito, sbattuto nelle prime pagine delle cronache. Casi unici, poi, sono
i magistrati condannati dai colleghi. A questa genuflessione si sono
adeguati i nostri parlamentari, bacchettati dalle Autorità comunitarie.
Sussiste la responsabilità dei magistrati anche per colpa semplice secondo
la Corte di Giustizia europea. Il rapporto tra i cittadini e tra i cittadini
e gli organi dello Stato è regolato dalla legge. L’art. 3 della Costituzione
esplicita che tutti hanno pari obblighi e diritti di fronte alla legge,
senza che vi siano immunità ed impunità per nessuno. Solo al Presidente
della Repubblica è riconosciuta la mancata responsabilità dei suoi atti, non
privati. Analizzando l’ambito del rapporto di prestazione di servizi manuali
o intellettuali si denota che il lavoratore subordinato, che con colpa reca
danno a qualcuno, è sottoposto alla legge penale, civile e disciplinare. Lo
stesso dicasi per il lavoratore autonomo o il professionista. Il medico che
sbaglia diagnosi o cura, risponde di omicidio o lesioni colpose e ne paga le
conseguenze civili e deontologiche. L’ingegnere, l’architetto, il geometra,
che per colpa sbaglia i progetti e causa dei crolli, risponde di omicidio, o
lesioni, o disastro colposo e ne paga le conseguenze civili, ecc. ecc.
L’avvocato, il commercialista, il notaio, l’assicuratore ecc, che per colpa
reca danno al suo cliente, paga le conseguenze civili e deontologiche. Al
dirigente pubblico, o al funzionario pubblico, o all’amministratore
pubblico, o addirittura al Presidente del Consiglio dei Ministri, o ai
singoli Ministri e Sottosegretari, che per colpa recano danno ai cittadini,
la Corte dei Conti chiede la rivalsa per il risarcimento del danno
riconosciuto. Da quanto detto pare che la legge sia uguale per tutti. Ad una
attenta analisi della realtà ci si accorge, però, che la legge è uguale per
tutti, meno che per i magistrati. I magistrati sono liberi di incarcerare i
cittadini innocenti, tanto c’è l’indennizzo per ingiusta detenzione, pagato
dallo Stato, ma a carico dei cittadini, salvo rivalsa, ma non sono
perseguiti per sequestro di persona. I magistrati sono liberi di condannare
i cittadini innocenti, tanto c’è l’indennizzo per l’errore giudiziario,
pagato dallo Stato, ma a carico dei cittadini, salvo rivalsa, ma non sono
perseguiti per calunnia e diffamazione. Al cittadino, che per anni ha subito
ingiustamente e per accanimento un procedimento penale che lo ha visto
prosciolto, ovvero da persona offesa ha visto il reato archiviato o
prescritto per inerzia, non c’è risarcimento riconosciuto, ne vi è abuso od
omissione d’atti d’ufficio a carico dei magistrati. Lo stesso dicasi per il
cittadino che è impedito alla giustizia civile per l’annosità dei processi.
C’è stato un referendum, approvato dalla quasi totalità dei cittadini
italiani, che formalmente ha stabilito la responsabilità civile dei
magistrati. Ossia: i magistrati che sbagliano devono risarcire i danni.
Invece, il rappresentante eletto dal popolo, ma lontano dagli interessi dei
cittadini, con l’art. 2 della legge n. 117/88 ha previsto:

«1. Chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un
atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con
dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di
giustizia può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni
patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione
della libertà personale.

2. Nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a
responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella
di valutazione del fatto e delle prove.

3. Costituiscono colpa grave:

a) la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile;

b) l’affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la
cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento;

b) la negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui
esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento;

c) l’emissione di provvedimento concernente la libertà della persona fuori
dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione».

Ai sensi dell’art. 3, n. 1, prima frase, della legge n. 117/88, costituisce
peraltro un diniego di giustizia «il rifiuto, l’omissione o il ritardo del
magistrato nel compimento di atti del suo ufficio quando, trascorso il
termine di legge per il compimento dell’atto, la parte ha presentato istanza
per ottenere il provvedimento e sono decorsi inutilmente, senza giustificato
motivo, trenta giorni dalla data di deposito in cancelleria». Ad una lettura
attenta della norma si palesa la volontà di non perseguire alcun Magistrato,
specie se a decidere sul comportamento del singolo è la stessa corporazione
di cui esso fa parte. D’altronde basta poco a giustificare un diniego di
giustizia. Se, come da molti è considerato, il magistrato è Dio in terra,
infallibile e perfetto nelle sue azioni, mai incorrerà nel dolo o colpa
grave, tanto meno sarà ammissibile la semplice colpa, dalla legge esclusa,
così come è per i comuni mortali. Secondo la conformità del pensiero
dominante, l’appello accolto o il ricorso cassato da altro magistrato, non
sono frutto di errori giudiziari penali risarcibili, ma oneri a carico
dell’innocente, perseguito ingiustamente. Per il diniego di giustizia, poi,
secondo il modo di pensare conforme di gente codarda e collusa,
l’impedimento è oggettivo. Non è responsabilità del Magistrato, quando
amministra la giustizia, o quando è seduto in Parlamento a farsi le leggi,
ma è colpa dello Stato, quindi del cittadino, che fa mancare all’apparato la
sussistenza economica, ovvero è colpa degli utenti, che in massa, si
rivolgono alla magistratura per chiedere giustizia. I magistrati devono
meritarlo il rispetto e non pretenderlo. L’art. 3 della costituzione non
prevede cittadini unti dal Signore, al di sopra della legge. Non è certo
l’azione di rivalsa del Presidente del Consiglio dei Ministri, non superiore
ad un terzo dello stipendio del responsabile, di cui all’art 13 della stessa
legge, ad equilibrare gli interessi in campo. L’azione di rivalsa opera solo
in caso di indennizzo per ingiusta detenzione ed errore giudiziario, casi in
cui rientra l’operatività della legge. Per tutto il resto non opera
l’indennizzabilità dello Stato. La Corte di giustizia Europea censura la
disciplina italiana della responsabilità dei magistrati e la mancata
applicazione dell’art. 234 CE. Lo fa con la sentenza del 13 giugno 2006, nel
procedimento C-173/03, avente ad oggetto la domanda di pronuncia
pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’art. 234 CE, dal Tribunale
di Genova, con ordinanza 20 marzo 2003, pervenuta in cancelleria il 14
aprile 2003, nella causa Traghetti del Mediterraneo SpA, in liquidazione,
contro Repubblica Italiana. La sentenza si inquadra in un risalente filone,
nell’ambito del quale il giudice comunitario da decenni ribadisce la
responsabilità degli Stati per mancato rispetto del diritto comunitario da
parte di tutte le loro istituzioni, in qualsiasi forma perpetrata. In questo
caso la Cassazione italiana aveva dato torto alla società Traghetti del
Mediterraneo, ricorrente per il risarcimento nei confronti della Tirrenia,
non avendo tenuto conto della disciplina comunitaria relativa agli aiuti di
Stato. Nel fare ciò la Cassazione aveva, inoltre, rifiutato di sollevare
questione pregiudiziale, ai sensi dell’art. 234. Ed è questo forse un punto
rilevantissimo nella sentenza pur densa di motivi interessanti (tra cui
quello del colpo inferto alla disciplina della responsabilità civile dei
magistrati). Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara: “Il
diritto comunitario osta ad una legislazione nazionale che escluda, in
maniera generale, la responsabilità dello Stato membro per i danni arrecati
ai singoli a seguito di una violazione del diritto comunitario imputabile a
un organo giurisdizionale di ultimo grado, per il motivo che la violazione
controversa risulta da un’interpretazione delle norme giuridiche o da una
valutazione dei fatti e delle prove operate da tale organo giurisdizionale.
Il diritto comunitario osta altresì ad una legislazione nazionale, che
limiti la sussistenza di tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa
grave del giudice, ove una tale limitazione conducesse ad escludere la
sussistenza della responsabilità dello Stato membro interessato in altri
casi in cui sia stata commessa una violazione manifesta del diritto vigente,
quale precisata ai punti 53-56 della sentenza 30 settembre 2003, causa
C-224/01, Köbler” A questo punto non si può pretendere che il cittadino,
già tartassato, debba subire e tacere. Almeno che ci rimanga il diritto di
lamentarci, se non, addirittura, di ribellarci.

LA RESPONSABILITÀ CIVILE DEI MAGISTRATI. TRA GARANZIE COSTITUZIONALI, MONITI
EUROPEI, SUSSULTI REFERENDARI E LEGISLATIVI. Relazione resa dal Cons. Nicola
Durante (Magistrato amministrativo) al convegno sul tema “Giustizia oggi”,
organizzato presso la Prefettura di Catanzaro il 3 dicembre 2013. SOMMARIO:
1. La disciplina vigente; 2. Principali peculiarità e fondamento
costituzionale del sistema; 3. Problematiche di compatibilità col diritto
comunitario; 4. Spinte innovatrici e proposte referendarie.

1. La disciplina vigente. La materia della responsabilità civile dei
magistrati è oggi regolata dalla legge 13 aprile 1988, n. 117 (c.d. “legge
Vassalli, dal nome del ministro guardasigilli dell’epoca), emanata a seguito
dell’abrogazione referendaria degli artt. 55, 56 e 74 c.p.c., avvenuta nel
1987. In precedenza, poteva aversi responsabilità civile del magistrato solo
in caso di dolo, frode o concussione. In forza dell’art. 28 Cost., la
responsabilità si estendeva poi allo Stato, per immedesimazione organica.
Rispetto a tale schema, la disciplina vigente si fonda sul principio
opposto: l’illecito civile del magistrato obbliga verso il danneggiato
esclusivamente lo Stato che, se condannato, esercita la rivalsa nei
confronti del proprio dipendente. Analizzando per sommi capi il testo
normativo, si rileva che, ai sensi degli artt. 2 e 3 della legge, l’illecito
può avere forma attiva od omissiva (c.d. “diniego di giustizia”). L’art. 2
pone, tuttavia, tre importanti limitazioni all’insorgere della
responsabilità. Anzitutto, il danno deve avere natura tendenzialmente
patrimoniale, essendo quello non patrimoniale risarcibile solo se
conseguente ad un’ingiusta privazione della libertà personale. Quindi, la
fattispecie illecita dev’essere sorretta dall’elemento psicologico del dolo
o della colpa grave, riguardo alla quale ultima, il comma 3 dell’art. 2
tipizza quattro distinte ipotesi: a) la grave violazione di legge
determinata da negligenza inescusabile; b) l’affermazione, determinata da
negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente
esclusa dagli atti del procedimento; c) la negazione, determinata da
negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta
incontrastabilmente dagli atti del procedimento; d) l’emissione di
provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti
dalla legge oppure senza motivazione. Infine, per effetto della c.d.
“clausola di salvaguardia” di cui al comma 2, «nell’esercizio delle funzioni
giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione
di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove».
Secondo l’art. 4 della legge, l’azione di risarcimento si esercita, nei
confronti del Presidente del Consiglio dei ministri, quando il provvedimento
causativo del danno è divenuto definitivo. La stessa decade, in genere, dopo
due anni dal momento in cui l’azione è diventata esperibile. Competente sul
giudizio è il tribunale del capoluogo del distretto della corte d’appello
determinato a norma dell’art. 11 c.p.p., il quale deve preliminarmente
valutare se l’azione è inammissibile rispetto ai termini od ai presupposti
di cui agli artt. 2, 3 e 4, ovvero se è manifestamente infondata,
provvedendo in tal caso con decreto motivato, impugnabile in corte d’appello
e successivamente per cassazione. Se la domanda è ammissibile, gli atti sono
trasmessi ai fini dell’azione disciplinare, che va esercitata entro due mesi
e nel cui ambito rileva anche la colpa semplice. Il magistrato che ha
causato l’illecito non può essere assunto come teste, né può essere chiamato
in causa, ma può intervenire in ogni fase e grado del procedimento. La
condanna fa stato nel giudizio di rivalsa solo se il magistrato è
intervenuto volontariamente in giudizio. Non fa stato nel procedimento
disciplinare. In nessun caso, fa stato la transazione raggiunta dallo Stato
con il danneggiato. L’azione di rivalsa è promossa dal Presidente del
Consiglio dei ministri, entro l’anno dalla definitività della condanna. Il
foro è lo stesso della causa principale e la misura della rivalsa non può
superare il terzo dello stipendio percepito dal magistrato nell’anno in cui
è proposta l’azione di risarcimento. Tale limite non si applica al fatto
commesso con dolo. Se l’illecito scaturisce da una decisione collegiale, non
ne risponde il magistrato che abbia fatto constare a verbale il proprio
dissenso succintamente motivato. Detta facoltà non è in contraddizione con
la generale regola di segretezza del contenuto della discussione sulle
questioni affrontate dal collegio al fine di pervenire alla decisione, dal
momento che il verbale va inserito in un plico sigillato, le cui modalità di
conservazione sono tali da escludere la conoscibilità all’esterno
dell’esistenza del dissenso.

2. Principali peculiarità e fondamento costituzionale del sistema. La prima
peculiarità del sistema dianzi succintamente descritto deriva dalla scelta
del legislatore di traslare l’azione di rivalsa – e, cioè, il giudizio sulla
responsabilità amministrativa del magistrato – dalla sua sede naturale (la
Corte dei conti) al giudice ordinario. La deroga, per la sua specialità,
opera nel solo ambito della responsabilità civile, con la conseguenza che,
ai sensi dell’art. 13 della legge, in presenza di un danno da reato,
commesso dal magistrato nell’esercizio delle sue funzioni, l’azione di
responsabilità è esperibile direttamente nei confronti di quest’ultimo ed
anche in sede penale, mentre l’azione – questa volta chiamata «di regresso»
– dello Stato, tenuto al risarcimento nella qualità di responsabile civile,
è mantenuta in capo alla Corte dei conti ed è assoggettata alle regole
ordinarie sul pubblico impiego. Ma ogni qual volta un’ipotesi di reato non
si configuri, la controversia sul danno erariale causato nell’esercizio di
funzioni giudiziarie è devoluta al giudice ordinario ed il magistrato può
essere chiamato a rispondere solo a titolo di rivalsa con i limiti di cui
all’art. 3, salvi i casi di dolo. Questo reca con sé importanti riflessi non
solo processuali, ma anche sostanziali, impedendo che trovino efficacia,
quanto meno diretta, per la categoria dei magistrati, tutta una serie di
istituti favorevoli che la Corte dei conti applica, invece, ai pubblici
impiegati in genere, come il principio di parziarietà dell’obbligazione, la
sua intrasmissibilità agli eredi (tranne il caso di loro indebito
arricchimento), l’esercizio del potere riduttivo da parte del giudice e la
definizione agevolata della lite, ai sensi dell’art. 1, commi 231-233, della
legge 23 dicembre 2005, n. 266. Venendo alla struttura dell’illecito,
un’altra particolarità consiste nel fatto che il danno cagionato dal
magistrato non determina la responsabilità di costui verso il terzo, ma
quella dello Stato. Ciò costituisce eccezione al criterio ordinario,
ritraibile dall’art. 28 Cost., secondo cui del danno cagionato al privato
sono solidalmente responsabili e l’impiegato e l’ente pubblico di
appartenenza, in virtù del rapporto d’immedesimazione organica. Almeno
apparentemente, la previsione dell’elemento soggettivo in termini di dolo o
colpa grave, e non di colpa semplice, non modifica la regola generale di cui
all’art. 23 del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (T.U. sul pubblico impiego),
che pure riconnette la responsabilità civile personale dei funzionari e
dipendenti pubblici – e, di riflesso, quella dell’ente – ai soli casi di
violazione dei diritti dei terzi commessi con dolo o colpa grave. Tuttavia,
a ben vedere, è la sostanza della colpa grave desumibile dalla legge del
1988 a differenziarsi da quella di tipo ordinario, a causa della
tipizzazione dei casi in cui essa può essere ravvisata. Insomma, la colpa
grave del magistrato, lungi dal coincidere con la nozione comune di mancato
uso della diligenza, della perizia e della prudenza professionali esigibili
in relazione al tipo di servizio pubblico o ufficio rivestito, assurge ad
una sorta di lata culpa piane dolo comparabitur, di antica memoria. Di modo
che, non basta che la violazione della legge commessa dal magistrato sia
grave, perché essa dev’essere anche ascrivibile a “negligenza inescusabile”,
dovendosi presentare come “non spiegabile”, e cioè senza agganci con le
particolarità della vicenda atti a rendere l’errore comprensibile, anche se
non giustificato. In altre parole, questa forma di responsabilità è sì
incentrata sulla colpa grave del magistrato, ma per come tipizzata dalle
ipotesi specifiche ricomprese nell’art. 2, le quali sono riconducibili al
comune fattore della “negligenza inescusabile”, che implica la necessità di
configurare un quid pluris rispetto alla colpa grave delineata dall’art.
2236 c.c.: pertanto, l’errore rileva quando il giudice pone a fondamento del
suo giudizio elementi del tutto avulsi dal contesto probatorio di
riferimento e non quando ritiene sussistente una determinata situazione di
fatto senza elementi pertinenti, ovvero sulla scorta di elementi
insufficienti, che però abbiano formato oggetto di esame e valutazione,
trattandosi in tal caso di errato apprezzamento dei dati acquisiti. Pare
tuttavia rimanere nell’alveo generale della colpa grave l’ipotesi tipizzata
sub d), che si concretizza nell’«emissione di provvedimento concernente la
libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza
motivazione»; e lo stesso dicasi per il diniego di giustizia ai sensi
dell’art. 3, che dev’essere «senza giustificato motivo». E non è ancora
tutto, perché un’ulteriore franchigia si realizza nei casi coperti dalla
c.d. “clausola di salvaguardia” di cui all’art. 2, comma 2, secondo la quale
«nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a
responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella
di valutazione del fatto e delle prove». La compatibilità costituzionale di
tali previsioni non è in dubbio, avendo la Consulta ripetutamente affermato
che la legge n. 117 del 1988 rappresenta un punto di equilibrio tra le
esigenze di tutela del soggetto danneggiato e dei valori dell’indipendenza
della magistratura, della sua autonomia e della pienezza dell’esercizio
della funzione giudiziaria. L’indipendenza garantisce infatti l’imparzialità
del giudice, assicurandogli una posizione super partes che escluda
qualsiasi, anche indiretto, interesse alla causa da decidere. La disciplina
dell’attività del giudice deve perciò essere tale da renderlo immune da
vincoli che possano comportare la sua soggezione, formale o sostanziale, ad
altri organi, mirando altresì, per quanto possibile, a evitare forme di
prevenzione, timore, influenza che possano indurre il giudice a decidere in
modo diverso da quanto a lui dettano scienza e coscienza. L’equilibrio sta,
dunque, nel contemperare indipendenza e responsabilità. Termini che solo
apparentemente sembrano dare vita ad un’inconciliabile antinomia, non
potendo concepirsi che il primo si traduca in una sostanziale
irresponsabilità degli organi della magistratura o che determini la nascita
di un potere operante al di fuori dell’organizzazione statale ed al di sopra
delle sue leggi.

3. Problematiche di compatibilità col diritto comunitario. Una prima
breccia alla conformità della legge n. 117 del 1988 col diritto comunitario
si è aperta con la decisione assunta dalla Corte di giustizia CE il 30
settembre 2003, nella causa Köbler/Republik Österreich, dov’è stato
affermato che «il principio secondo cui gli Stati membri sono obbligati a
riparare i danni causati ai singoli dalle violazioni del diritto comunitario
che sono loro imputabili si applica anche allorché la violazione di cui
trattasi deriva da una decisione di un organo giurisdizionale di ultimo
grado. Infatti, questo principio, inerente al sistema del Trattato, ha
valore in riferimento a qualsiasi ipotesi di violazione del diritto
comunitario commessa da uno Stato membro, qualunque sia l’organo di
quest’ultimo la cui azione od omissione ha dato origine alla trasgressione».
Dunque, in base alla pronuncia, uno Stato membro è obbligato a riparare i
danni causati ai singoli, in presenza di una violazione del diritto
comunitario ascrivibile, in forma attiva od omissiva, ad un organo
giurisdizionale di ultimo grado. E’ stato inoltre notato che, a differenza
delle pregresse decisioni in materia di responsabilità dello Stato membro
per violazione del diritto comunitario da parte di organi interni, la
sentenza Köbler enuncia il criterio d’imputazione della “violazione
manifesta” e non della “violazione grave e manifesta”: cosa che lascerebbe
trapelare la volontà di ampliare i margini della responsabilità statale,
quando l’illecito è riconducibile ad un organo giurisdizionale di ultimo
grado. La sentenza in parola, pur non riferendosi all’Italia, già pone il
problema della compatibilità comunitaria dell’art. 2 della legge n. 117 del
1988, che da un lato prevede i diversi criteri della colpa grave (tipizzata)
e del dolo e, dall’altro, esenta dalla responsabilità per danni le
violazioni commesse in sede di interpretazione di norme di diritto o di
valutazione del fatto e delle prove. Ma a sancire definitivamente il
contrasto tra i due ordinamenti è intervenuta, a distanza di quasi tre anni,
la sentenza della Grande Sezione della Corte di giustizia 13 giugno 2006,
nella causa C- 173/03, Traghetti del Mediterraneo s.p.a. in
liquidazione/Repubblica Italiana. Le conclusioni di tale arresto sono
trancianti: «il diritto comunitario osta ad una legislazione nazionale che
escluda, in maniera generale, la responsabilità dello Stato membro per i
danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto
comunitario imputabile a un organo giurisdizionale di ultimo grado per il
motivo che la violazione controversa risulta da un’interpretazione delle
norme giuridiche o da una valutazione dei fatti e delle prove operate da
tale organo giurisdizionale. Il diritto comunitario osta, altresì, ad una
legislazione nazionale che limiti la sussistenza di tale responsabilità ai
soli casi di dolo o colpa grave del giudice, ove una tale limitazione
conducesse ad escludere la sussistenza della responsabilità dello Stato
membro interessato in altri casi in cui sia stata commessa una violazione
manifesta del diritto vigente, quale precisata ai punti 53-56 della sentenza
Köbler». E non è tutto, perché, non avendo la Repubblica italiana dato
seguito alla statuizione, la Commissione ha aperto una procedura di
infrazione ai sensi dell’art. 260 del Trattato, in base al quale «quando la
Corte di giustizia dell’Unione europea riconosca che uno Stato membro ha
mancato ad uno degli obblighi ad esso incombenti in virtù dei trattati, tale
Stato è tenuto a prendere i provvedimenti che l’esecuzione della sentenza
della Corte comporta». Quindi, la Sezione III della Corte, con sentenza del
24 novembre 2011, in causa C-379/10, Commissione europea/Repubblica
italiana, accogliendo il ricorso, ha dichiarato che: «la Repubblica
italiana, escludendo qualsiasi responsabilità dello Stato italiano per i
danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto
dell’Unione imputabile ad un organo giurisdizionale nazionale di ultimo
grado, qualora tale violazione risulti da interpretazione di norme di
diritto o da valutazione di fatti e prove effettuate dall’organo
giurisdizionale medesimo, e limitando tale responsabilità ai soli casi di
dolo o colpa grave, ai sensi dell’art. 2, commi 1 e 2, della legge 13 aprile
1988, n. 177, sul risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle
funzioni giudiziarie e sulla responsabilità civile dei magistrati, è venuta
meno agli obblighi ad essa incombenti in forza del principio generale di
responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto dell’Unione da
parte di uno dei propri organi giurisdizionali di ultimo grado». In
particolare, la Corte ha censurato la circostanza per cui, nell’ordinamento
interno italiano, l’attività di interpretazione di norme di diritto e di
valutazione di fatti e prove è esente da responsabilità anche nei casi di
dolo o colpa grave, il che contrasta col diritto europeo. Inoltre, quanto
meno nell’interpretazione seguìta dalla Corte di cassazione, il contenuto
proprio del dolo e della colpa grave non è affatto equivalente a quello
della violazione del diritto vigente di matrice comunitaria, ma è ben più
rigoroso. Il richiamato distinguo operato dalla Corte di giustizia ha
permesso di sostenere che essa, mentre ha ritenuto radicalmente contrario al
diritto dell’Unione l’art. 2, comma 2, si è mostrata più concessiva nei
confronti del comma 1, a patto, però, che la Corte di cassazione interpreti
il requisito della colpa grave in termini tali da corrispondere al requisito
di “violazione manifesta del diritto vigente”, come fissato dalla
giurisprudenza europea. Quanto agli effetti della decisione, le conseguenze
tratte dallo stesso autore sono nel senso che, attesa la natura di fonte del
diritto attribuibile alle sentenze della Corte di giustizia e stante il
fatto che la decisione del 24 novembre 2011 è stata adottata con i poteri
dell’art. 260 del Trattato, le norme interne in contrasto col diritto
sovranazionale non sono più applicabili. Questo, però, non deve condurre ad
affermare un duplice livello di tutela per il cittadino leso da condotte
illegittime di magistrati: maggiormente garantistico, quando si fa valere la
trasgressione di norme comunitarie (posto che, in questo caso, è sufficiente
che la violazione si caratterizzi in relazione ai requisiti individuati
dalla Corte di giustizia nel caso Köbler) e più severo, ove la trasgressione
riguardi la legge nazionale (occorrendo dimostrare il dolo o la colpa grave
del magistrato e, soprattutto, che la violazione non possa essere ricondotta
nell’alveo dell’interpretazione di una norma di diritto o della valutazione
del fatto e delle prove). Una tale disparità determinerebbe infatti, nel
diritto interno, un grado di protezione più basso di quello accordato alle
violazioni del diritto comunitario, ponendo il problema della legittimità
del diverso regime a fronte della medesima situazione soggettiva lesa, in
relazione al canone di uguaglianza e ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.
ed in relazione all’art. 54 Cost. che impone, al massimo livello,
l’osservanza della Costituzione e delle leggi. Non di meno, occorre
osservare che la prima decisione in tema della Corte di cassazione ha, sia
pure incidentalmente, enunciato il divisamento opposto, essendosi ritenuto
che l’esclusione della responsabilità per errata interpretazione di norme di
diritto od errata valutazione del fatto e della prova continui a valere,
laddove non venga in rilievo una violazione manifesta del diritto
dell’Unione europea imputabile ad un organo giurisdizionale nazionale di
ultimo grado, essendo soltanto quest’ipotesi in contrasto con gli obblighi
comunitari dello Stato italiano, e ciò alla luce della Corte di giustizia
del 24 novembre 2011, nella causa C-379/10. Dello stesso tenore è, infine,
la proposta di modifica della legge n. 177 del 1988, inserita dal Governo
nel disegno di legge comunitaria per il 2013 licenziato l’8 novembre 2013,
dove la responsabilità dello Stato per violazione chiara e manifesta è
prevista solo in relazione al diritto comunitario ed agli atti riferibili ad
un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado.

4. Spinte innovatrici e proposte referendarie. E’ opinione diffusa che
un’esegesi giurisprudenziale ritenuta troppo “partigiana” ha
progressivamente contribuito a confinare la responsabilità civile dei
magistrati ad un ruolo marginale, quasi si trattasse dell’extrema ratio per
i casi di stridente ingiustizia, infondendo nel sentimento popolare un senso
di tradimento dello spirito referendario del 1987. In proposito, a titolo di
contributo interpretativo, si è avanzata la tesi per cui la “clausola di
salvaguardia” debba trovare applicazione solo per l’error in iudicando e non
per l’error in procedendo: sarebbero così assoggettati a responsabilità
piena i casi in cui la norma violata non costituisce parametro di giudizio,
ma semplice regola di condotta processuale. In queste ultime ipotesi,
infatti, «il giudice non “decide”, ma opera la ricognizione dei propri
comportamenti leciti e doverosi, come qualunque altro destinatario di una
qualunque norma o, se si vuole, come qualunque altro soggetto il cui
comportamento sia da quella norma disciplinato. Nello stabilire ciò che egli
può o deve fare, il giudice non può “giudicare” in senso proprio, per
l’assorbente considerazione che egli non è terzo imparziale e indifferente,
ma è anzi il principale soggetto interessato all’esito del suo “giudizio”».
La teoria richiamata, senza dubbio accattivante, deve tuttavia fare i conti
non soltanto con le opinioni dottrinarie contrarie, ma soprattutto con i
princîpi tralaticiamente espressi dalla Suprema Corte, a mente della quale
la clausola di esenzione «non tollera riduttive letture, perché giustificata
dal carattere fortemente valutativo della attività giudiziaria e, come
precisato dalla Corte costituzionale (nella sentenza 19 gennaio 1989 n. 18),
attuativa della garanzia costituzionale della indipendenza del giudice (e
del giudizio)»; essa si applica «senza eccezioni per le norme processuali, e
dunque includendo quelle che fanno carico al giudice d’esaminare i temi in
discussione influenti per la decisione e di dare contezza delle ragioni
della decisione stessa». A muovere verso un rinnovamento sono stati, in
epoca recente, due quesiti referendari non ammessi alla tornata del 2014 per
mancato raggiungimento del quorum di cinquecentomila sottoscrizioni, a mezzo
dei quali si chiedeva l’abrogazione della legge 13 aprile 1988 n. 117,
limitatamente all’art. 2, comma 2 (la c.d. “clausola di salvaguardia”) e/o
all’art. 5 (in tema di delibazione di ammissibilità della domanda). In
ambito legislativo, un concreto tentativo di superamento dell’assetto
corrente è stato avanzato con un emendamento al disegno di legge comunitaria
del 2011 presentato dal deputato Gianluca Pini della Lega Nord, il quale,
sebbene respinto, ha trovato vasta eco nell’opinione pubblica. Esso, in
sintesi, si concretizzava nella possibilità, per il danneggiato, di esperire
l’azione risarcitoria direttamente nei confronti del magistrato, nella
sostituzione dei requisiti del dolo e della colpa grave con quello della
violazione manifesta del diritto e nell’assoggettamento a responsabilità
dell’attività di interpretazione delle norme di diritto. Ciò non di meno, è
stato notato come l’ipotesi di una responsabilità diretta del giudice, per
altro estesa all’interpretazione del diritto, si ponga in contrasto non solo
col principio di indipendenza della magistratura come sancito dalla Corte
costituzionale, ma altresì con gli auspici degli organismi europei,
contenuti nella raccomandazione del Comitato dei ministri del Consiglio
d’Europa del 17 novembre 2010 n. 12 e nella Carta europea sullo statuto dei
giudici. Essa, inoltre, non avrebbe pari negli ordinamenti giuridici
avanzati, che disciplinano la materia con l’immunità assoluta propria dei
Paesi di common law (U.S.A., Gran Bretagna, Canada), o con limitazioni
ancora più rigorose di quelle previste dalla legge n. 117 del 1988
(Germania), alla responsabilità del solo Stato con possibilità di rivalsa in
ipotesi di carattere del tutto eccezionale (Francia, Belgio, Portogallo) od
addirittura con esclusione della rivalsa (Paesi Bassi), mentre, nell’unico
ordinamento che prevede una azione diretta (Spagna), vi è comunque un filtro
preventivo subordinato alla verifica di requisiti particolarmente rigidi.
Per ultimo, è stato posto in luce come, estendendosi la responsabilità del
magistrato a qualsiasi forma di violazione manifesta del diritto, si darebbe
occasione al giudice del risarcimento di valutare l’operato di giudici
appartenenti ad altre giurisdizioni, vanificando di fatto la giurisdizione
del giudice amministrativo, che verrebbe sottoposto ad un sindacato di
merito ai fini risarcitori da parte del giudice ordinario, in spregio agli
artt. 103 e 113 Cost. Presso la commissione giustizia della Camera dei
deputati risultano attualmente pendenti:

– la proposta di legge C. 990, a firme Gozi, Bruno e Giachetti, del partito
democratico, presentata il 17 maggio 2013, la quale, premesso che la
combinazione dei vari filtri previsti dalla legge n. 117 del 1988 ha reso la
stessa «pressoché inapplicata in più di venti anni dalla sua entrata in
vigore», mira ad abrogare la clausola di salvaguardia e la tipizzazione dei
casi di colpa grave e del diniego di giustizia, oltre che a consentire il
risarcimento anche del danno non patrimoniale, a sottoporre l’azione di
rivalsa alla giurisdizione della Corte dei conti ed a prevedere che questa
sia esercitata dallo Stato nei confronti del magistrato per il rimborso
dell’intero onere sostenuto in sede di condanna;

– la proposta di legge C. 1735, a firme Leva, Verini, Russomando e Ferranti,
del partito democratico, presentata il 25 ottobre 2013, la quale, premessa
l’intenzione «di farsi carico delle criticità che sono derivate
dall’applicazione della legge n. 117 del 1988 e al tempo stesso cercare di
recepire le indicazioni provenienti dalla Corte di giustizia dell’Unione
europea», vuole sottoporre a sindacato risarcitorio l’attività di
interpretazione e di valutazione in caso di dolo, nonché di manifesta
violazione di norme di diritto ovvero di travisamento del fatto o di una
prova, che ledano i diritti fondamentali della persona, nonché eliminare le
ipotesi tipizzate di colpa grave, il filtro preliminare di ammissibilità
dell’azione ed il limite della rivalsa dello Stato sul magistrato.

Presso la commissione giustizia del Senato della Repubblica risulta pendente
la proposta di legge S. 1070, a firme Buemi, Nencini e Longo, del gruppo
autonomie, presentata il 1° ottobre 2013, dove, premesso come «la legge n.
117 del 1988 abbia avuto, per varie ragioni, una scarsissima applicazione»,
si prevede che la condanna contro lo Stato faccia stato nel giudizio di
rivalsa e nel procedimento disciplinare anche se il magistrato non è
intervenuto volontariamente nel processo contro lo Stato e si assegna alla
Corte di cassazione il compito di valutare, nelle forme di cui all’art. 2043
c.c., la responsabilità civile dei magistrati che «salvo il caso di
ignoranza inevitabile [omissis], si discostino dall’interpretazione della
legge», assicurata dalla medesima Corte.

Va infine registrata la richiesta avanzata al C.S.M. l’8 ottobre 2013 dai
consiglieri superiori Zanon e Nappi, di apertura di una pratica per la
formulazione al Parlamento di una proposta di modifica delle norme sulla
responsabilità civile dei magistrati. In particolare, le modifiche suggerite
consistono, in sintesi, nel richiamo alla «violazione manifesta del diritto
vigente» (piuttosto che al dolo od alla colpa grave) come criterio
d’imputazione della responsabilità dello Stato e nell’abrogazione della
clausola di salvaguardia. Verrebbe invece mantenuto in piedi il vaglio
preliminare di ammissibilità dell’azione. Parallelamente, la clausola di
salvaguardia ed i requisiti del dolo e della colpa grave andrebbero a
refluire nel giudizio di rivalsa, operando a valle dell’eventuale condanna
dello Stato, ossia nel rapporto interno tra Stato e singolo magistrato.

Naturalmente a giudicare i magistrati responsabili dell’errore grave o del
dolo saranno sempre magistrati…come questi.

Milano, le cause del fisco le giudica il magistrato evasore. Si tratta di
Maria Rosaria Grossi, assolta dalle accuse di tangenti perché ha dichiarato
che i soldi erano frutto dell’affitto in nero delle sue case. E adesso è
arbitro dei procedimenti per evasione nel capoluogo lombardo, scrive Paolo
Biondani su “L’Espresso”. Chi può fare il giudice nei difficili processi
contro gli evasori fiscali? In un Paese come l’Italia può farlo anche un ex
magistrato che, ritrovatosi imputato in una storiaccia di tangenti e
consulenze d’oro, è riuscito a conquistare una meritata assoluzione
spiegando di essere solo un evasore delle tasse. Questo straordinario caso
di specializzazione giudiziaria ha per protagonista una regina del diritto
italiano, Maria Rosaria Grossi, per lunghi anni giudice della prima sezione
civile e poi del tribunale fallimentare di Milano. Dopo aver gestito
centinaia di procedure milionarie, nel 2009 la sua carriera sembrava
stroncata: inquisita per tentata concussione e abuso d’ufficio, denunciata e
accusata da una dozzina di giudici e avvocati, era stata sospesa dalla
magistratura, prima in sede penale e poi per ordine del Csm. Nell’ottobre
2012, il colpo di scena: Maria Rosaria Grossi viene scagionata dal tribunale
di Brescia «perché il fatto non sussiste». A caldo, l’ex imputata si
dichiara perseguitata e annuncia che chiederà di tornare in magistratura. In
novembre, però, i giudici di Brescia (presidente Roberto Spanò) pubblicano
le motivazioni della sua assoluzione, che si rivelano molto imbarazzanti. Il
tribunale infatti scrive di aver potuto processarla, dopo un’inchiesta
«tormentata e mutilata», solo per «un rivolo» delle tante accuse che le
erano state mosse, l’unico per il quale persino il pm si era già rassegnato
a considerarla innocente. Ma nel ricostruire tutti i fatti, proprio la
sentenza di assoluzione svela che l’allora giudice Grossi ha innegabilmente
evaso le tasse, incassando «affitti in nero» su svariati immobili di sua
proprietà, addirittura «per quasi un quarto di secolo». Il colmo è che
questa non era la tesi dell’accusa: il tribunale precisa che era l’alibi
raccontato dalla stessa imputata, per giustificare un fiume di contanti che
rischiavano di esporla a reati più gravi. Ma ora si scopre che la signora
Grossi, dopo aver evitato la condanna con quella motivazione, ha potuto
tornare a fare il giudice della Commissione tributaria di Milano. Che è
quella specie di tribunale a cui la legge italiana affida le cause per
evasione fiscale, che nella capitale degli affari raggiungono importi
elevatissimi. L’ex giudice civile, in particolare, fa tuttora parte della
sezione numero 40, competente su Milano e provincia. “L’Espresso” ha
scoperto tra l’altro che, nel decidere le vertenze tributarie, si è
scontrata più volte con altri magistrati (mai indagati e tuttora in
servizio): il problema è che, dopo tutte le ingiustizie che ha passato, lei
proponeva di annullare le accuse di evasione anche quando i togati del suo
collegio erano invece fermamente colpevolisti. Per gustare tutto il sapore
di questa storia della presunta furbetta del fisco che diventa giudice degli
evasori, è sufficiente mettere in fila i soli fatti che il tribunale di
Brescia ha considerato dimostrati, pur non ravvisando alcun reato punibile.
L’inchiesta parte nel febbraio 2009, quando due magistrati molto seri di
Milano raccolgono e trasmettono a Brescia la testimonianza di un
commercialista di alto livello, Giovanni La Croce. Il professionista si è
sentito raccontare da una sua cliente, sorella del defunto avvocato Bruno
Giordano, che l’allora giudice Grossi avrebbe «riempito di incarichi
giudiziari» quel legale, che era anche il suo «amante». Un andazzo durato
«circa un decennio», con i due fidanzati, giudice e avvocato, che «si
dividevano i soldi» e diventavano sempre più ricchi. La sorella ha confidato
questi segreti al suo commercialista solo dopo la morte del fratello, quando
si è spaventata perché l’allora giudice le ha portato a casa «grosse somme
in contanti». Convocata dal pm bresciano Fabio Salamone, la sorella del
legale, Marina Giordano, conferma le sue confidenze al commercialista. E
aggiunge che, quando il fratello era ormai in fin di vita, la Grossi le
chiese di aprirle d’urgenza lo studio legale, reagendo così al suo rifiuto:
«Allora ho perso tutto!». La testimone precisa che, scomparso il fratello,
era diventata «molto amica» della Grossi, che «dall’inizio del 2008» ha
cominciato a chiederle favori pericolosi: «Mi portava ogni mese 10mila euro
in contanti e in cambio mi faceva firmare assegni di pari importo, intestati
però a sua sorella». La stessa teste rivela che l’allora giudice Grossi ha
accumulato un piccolo impero immobiliare: «Cinque appartamenti a Milano, due
ville al mare in Liguria e Puglia, una casa sul Mar Rosso e una in Val
d’Aosta». Riascoltata in seguito, la testimone tenta di annacquare le accuse
all’amica, ma si tradisce confermando un retroscena: «Dopo la mia prima
deposizione, la dottoressa Grossi si è presentata di sorpresa a casa mia
alle otto del mattino. Spingendomi in cucina, mi ha detto che potevamo
essere intercettate e ha iniziato a comunicare con biglietti a cui anch’io
rispondevo per iscritto. Mi rimproverava di non averla avvisata
dell’inchiesta. Io le ho riassunto cosa avevo riferito al pm, tra cui lo
scambio di denaro tra me e lei. Il giudice Grossi mi scrisse che l’origine
di quel contante erano i suoi affitti in nero. Dopo un’ora di colloquio
scritto, la Grossi ha raccolto tutti i bigliettini e si è allontanata».
Nella sentenza finale, il tribunale riporta tutta questa ricostruzione senza
alcuna obiezione, come fatti indiscutibili. Ma poi spiega che il pm, pur
avendo scovato sia gli immobili della Grossi sia il giro di assegni (per un
totale di centomila euro), ha visto cadere le sue accuse una dopo l’altra.
La morte dell’avvocato-fidanzato ha convinto la stessa procura a non
azzardare ipotesi di reato sui processi più vecchi, comunque prescritti.
Quindi il gip ha cancellato le accuse più recenti di abuso d’ufficio. È vero
che ben sei avvocati hanno confermato che la Grossi assegnava ricchissime
parcelle proprio all’avvocato Giordano. Mentre cinque magistrati hanno
testimoniato che la loro ex collega li faceva «inviperire», per la sua
ostinazione nell’assegnare i fallimenti ad altri professionisti suoi amici.
Ma i giudici di Brescia concludono che «i poteri affidati dalla legge ai
giudici fallimentari sono tanto ampi e discrezionali» da rendere
«problematico» equiparare quei favoritismi a veri reati. Sotto processo è
rimasta così solo una debole accusa di tentata concussione: nonostante le
smentite dell’imputata, il tribunale conferma che la Grossi chiese a un
altro avvocato, S.A., di «associarla nel suo studio», promettendo di
«riempirlo di incarichi», ma conclude che probabilmente era solo una
battuta, «uno sfogo da bar», che quel legale può avere equivocato «quando
lei lo ha escluso dai successivi incarichi». Insomma, nessun reato punibile.
Nella motivazione il tribunale avverte che la procura avrebbe potuto
«approfondire» altre accuse, come il «riciclaggio» (per i soldi in nero
scambiati con assegni puliti) o la «subornazione» (per le pressioni sulla
testimone), ma visto che il processo riguardava solo «quel malinteso con
l’avvocato S.A», l’imputata merita la piena assoluzione. La stessa sentenza
però riconosce «sicure violazioni disciplinari» per «un magistrato del
tribunale di Milano che per quasi un quarto di secolo ha riscosso
personalmente e per contanti, da innumerevoli soggetti, canoni di locazione
non dichiarati». Proprio questa motivazione spiega perché il Csm continua a
respingere (l’ultimo verdetto è del luglio 2012) i tentativi della Grossi di
rientrare nella magistratura normale. Ai requisiti di onorabilità dei
giudici fiscali, invece, dovrebbe pensare lo speciale «Consiglio di
giustizia tributaria», che però non si è mosso. E così i processi agli
evasori li decide ancora oggi la signora degli affitti in nero.