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TAURIANOVA (RC), VENERDì 26 APRILE 2024

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La giustizia dei giudici Riflessioni del giurista Giovanni Cardona sui veri attori del palcoscenico giudiziario

La giustizia dei giudici Riflessioni del giurista Giovanni Cardona sui veri attori del palcoscenico giudiziario
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La vocazione di giudicare gli altri può nascere come impulso naturale o da spinte psicologiche che si consolidano con lo sviluppo sociale dell’individuo.
In ogni caso giudicare gli altri è disumano, perché si esercita la potestà che, in via esclusiva, è riservata al Creatore.
Ma esiste davvero la giustizia dei buoni giudici, tanto da poterla contrapporre in modo speculare alla figura del cattivo giudice.
La letteratura ci induce a raffigurare la cattiveria del giudice, nella sua spietatezza, nel suo accanimento, nella falsa alterigia, nella subdola faziosità, nella manifesta perfidia, nella fraudolenza, nel lassismo.
Comportamenti o tipologie psicologiche agghiaccianti, figlie snaturate di quel potere illimitato riposto dai consociati nella persona del giudice.
Svestito da classiche attribuzioni e connessi orpelli, storici e metastorici, o dalle memorie veterotestamentarie dei giudici (condottieri di Israele o adstantes longobardi), il rebus del giudicante non si palesa appieno attraverso l’ingombrante memoria storica degli ordinamenti di giustizia.
Secoli di esaltazione e ripulse, di elogi e dissacrazioni, da Montaigne a Ivone di Bretagna, da Manzoni a Calamandrei o Sciascia, non hanno spiegato l’essenza ontologica insita nel giudicare.
Tra tante eterogenee disparità interpretative, s’asside, con un’aurea di mediocrità, la giustizia sempliciotta e umile incarnata dal bon jude Paul Magnaud, le cui virtù constavano nel vizio di rendere giustizia parametrandola solo col buon senso intriso di equità, disapplicando od infrangendo le regole consolidate nel diritto e nei codici.
Per siffatta natura, la giurisprudenza del buon giudice di Francia fu vagliata indecorosa, perché incline al diritto mite, in forme tolleranti e conciliatrici, informate al gusto dei semplici e al buon senso comune, anziché alle altitudine spocchiose della dogmatica, intrise di perspicacie interpretative affidate in esclusiva dalla storica corporazione dei ministri pagani del culto giudiziario, capaci di porgere il sostrato interpretativo a qualsiasi forma di sottile dominio.
Arguti e convinti largitori di giustizia da telecamera, oggigiorno, con la loro toga d’antan, rappresentano il simbolo vivente delle smanie processuali dei mortali, abilmente narrate ne “Le vespe” di Aristofane.
Una tragicommedia incommensurabile, dove viene scandagliata l’autentica passione giudiziaria degli Ateniesi, quella per i processi, ma l’attacco al sistema giudiziario non è comunque portato fino in fondo forse perché Aristofane sapeva di non potersi inimicare troppo uno dei più importanti centri di potere ateniesi.
Qualcosa di simile sta succedendo anche nel nostro massmediatico mondo, con una crescita smisurata di pan processualismo, tendente a far assurgere le massime giurisprudenziali, soprattutto quelle di legittimità, a veri e propri “precedenti vincolanti” a seconda, ovviamente, delle “convenienze”.
Viviamo in terra d’Italia, quindi sul ciglio immanente di nuove inquisizioni od aggiunte al capitolo interminabile della storia universale dell’infamia.
“La differenza tra un cattivo giudice e uno buono è che il primo si limita a giudicare e a condannare, mentre il secondo cerca anche di capire. E questa è già una forma di perdono.” (Roberto Gervaso, La volpe e l’uva, 1989).