Image Image Image Image Image Image Image Image Image Image

TAURIANOVA (RC), GIOVEDì 25 APRILE 2024

Torna su

Torna su

 
 

Il dramma dell’ex sindaco di Marina di Gioiosa Jonica Rocco Femia, in carcere da innocente La lettera della figlia Brenda la quale descrive i momenti toccanti che hanno coinvolto il padre

Il dramma dell’ex sindaco di Marina di Gioiosa Jonica Rocco Femia, in carcere da innocente La lettera della figlia Brenda la quale descrive i momenti toccanti che hanno coinvolto il padre

Di Mariateresa Orlando

Impianti accusatori che si sgretolano per poi diventare polvere. Intercettazioni a fiume, accuse pesanti, udienze interminabili. Ed esistenze distrutte.
È il triste primato della Calabria sulle ingiuste detenzioni. E mentre lo Stato, attraverso le tasche dei contribuenti, liquida ogni anno piogge di risarcimenti, la vita di un ex detenuto, reo nelle parole e non sempre nei fatti, non sarà mai più la stessa. Rocco Femia, 53 anni, professore di educazione fisica ed ex Sindaco di Marina di Gioiosa Ionica, è solo una delle tante vittime di quella “giustizia impulsiva- compulsiva” che non fa sconti a nessuno. Una giustizia dalle manette facili che ogni anno sottrae dalle casse dello Stato tra i 25.000.000 e i 30.000.000 euro. Reggio Calabria, come Napoli e Catanzaro, rimangono le provincie più danneggiate con processi flop e pene indebitamente inflitte. È l’alba del 4 maggio del 2011 quando scatta l’operazione “Circolo Formato”. Su disposizione della Direzione distrettuale Antimafia di Reggio Calabria, viene arrestato il Sindaco di Marina di Gioiosa Ionica, Rocco Femia, insieme a tre assessori comunali e altre 37 persone, accusate dalla Procura reggina di essere contigue alla “cosca Mazzaferro”.
Un calvario giudiziario durato dieci anni, cinque dei quali trascorsi alla sbarra tra i penitenziari di Reggio Calabria, Palermo, Locri e Vibo Valentia. Condannato in primo e secondo grado con l’accusa di essere stato favorito nella consultazione elettorale, Femia ha dovuto ridisegnare i contorni di una vita che non gli apparteneva. Tra scuola, jogging e lettura di gialli e romanzi, ha provato ad ammazzare un tempo infausto e lento, in attesa di poter rivedere uno spiraglio di luce. “Ho sempre gridato la mia innocenza e più volte ho chiesto un confronto in carcere con il Procuratore Gratteri – spiega Femia- ma le mie istanze per 5 anni e 9 giorni sono rimaste inascoltate”. La gogna mediatica e l’etichetta di presunto affiliato forzatamente cucitagli addosso, hanno disintegrato l’aspetto psicologico dell’ex Sindaco, sbattuto in cella solo per un rapporto amicale consolidatosi nei campi di calcio. “Non sono più l’uomo di prima, questo sarà un trauma che accompagnerà me e la mia famiglia per tutta la vita. In casa nostra – chiosa con la voce rotta dall’emozione- non è mai esistita la parola ‘Ndrangheta. Da sportivi, le parole che ci hanno sempre accomunati sono state basket, calcio e Juventus”. L’ex Primo cittadino del basso ionio reggino, visibilmente amareggiato, è un fiume in piena: “Ho pagato per colpe che non ho, la giustizia nel mio caso ha fallito, motivo per cui mi sono convinto che viviamo in una dittatura camuffata da democrazia”. Trattato dai giudici alla pari di un super Boss, Rocco Femia ha dovuto sopravvivere alle dure restrizioni della sezione “Alta Sicurezza” incassando la condanna a 10 e poi 8 anni di reclusione nei primi due gradi di giudizio, per poi essere assolto definitivamente il 10 marzo scorso (dinnanzi alla Prima sezione della Corte di Appello di Reggio Calabria) “per non aver commesso il fatto”. In realtà, la libertà per l’ex amministratore è legata ad un’altra data: il 12 maggio del 2016 la Corte d’Appello di Reggio Calabria ordina la scarcerazione per carenza di esigenze cautelari. L’avvocato Eugenio Minniti del foro di Locri, legale di Rocco Femia (insieme agli avvocati Marco Tullio Martino e al Cassazionista
Franco Coppi) evidenzia tutto il rammarico per una vicenda giudiziaria che si sarebbe dovuta concludere in tempi più celeri considerata la “lacunosità di un procedimento povero sotto il profilo investigativo”. Qualcosa come trentamila intercettazioni, che di fatto, non avrebbero mai dato prove rilevanti di colpevolezza. “Purtroppo- spiega il penalista – ancora una volta siamo vittime di un utilizzo distorto della detenzione preventiva. Bisogna ricorrere con extrema ratio alla carcerazione, considerando che esiste fino alla sentenza di condanna definitiva, la presunzione di innocenza dell’imputato”. Un giudizio fortemente critico quello proferito dal Presidente della Camera penale di Locri, in rapporto ai dati sempre più allarmanti sul fronte delle ingiuste detenzioni. Manette che si chiudono troppo velocemente quando ancora le indagini non risultano concluse. E tutto questo si converte in un caro prezzo da pagare: il sovraffollamento delle nostre carceri e il rischio di continuare a sbagliare, sbattendo in cella ancora altri innocenti.

IL RACCONTO DI BRENDA, FIGLIA DI UN DETENUTO INNOCENTE.

Da cinque anni la vita di Rocco Femia ha finalmente assunto le sembianze della “normalità”. Il poter sorseggiare il caffè nel proprio bar, la corsa pomeridiana con la salsedine che si attacca in fronte, l’abbraccio ai figli senza l’ostacolo di un vetro e la mano sulla spalla alla moglie. Certamente, nessun risarcimento potrà mai ripagarlo di quel tempo sottratto, né fare tabula rasa degli anni trascorsi in cella. Adesso al suo fianco c’è quella bimba ribelle, oggi ormai donna prossima alla maturità, che lo sostiene e lo inebria ora dopo ora di entusiasmo. Brenda Giulia, è la figlia minore di Rocco Femia, diventata grande in fretta, forte come una roccia e responsabile già come una grande donna. Brenda, che sogna un futuro nel campo della moda, ama la scrittura e proprio durante la detenzione del padre ha provato a mettere nero su bianco le proprie emozioni. Autrice di uno scritto “La mia favola, la mia battaglia” ripercorre le tristi vicende che hanno colpito la sua famiglia, a partire proprio dalla scena dell’arresto del padre. “Erano le quattro del mattino quando vidi entrare in camera quegli omoni. Papà si vestì in fretta, con scarponi e giacca. Passarono i giorni e non capivo dove fosse finito. Lo chiamavano carcere, ma io cosa ne potevo sapere? Ero una bambina”.
Profondamente toccante il racconto della figlia, che rivela un aspetto comune nella vita dei figli dei detenuti. “Speravo che il primo fosse anche l’ultimo colloquio. Ma così non fu. Ce ne furono un secondo, un terzo ed altri ancora. Andare in quel posto mi terrorizzava, vedevo sempre visi tristi e distrutti fare la solita vita… Mi è capitato di piangere, ma non davanti a tutti. Da sola. Immaginavo razzi spaziali e sogni giganti come facevo con papà, e tutto avevo un senso”.