Nel Villaggio Deco verranno esposti, per la provincia di Reggio Calabria: le prugne di Terranova Sappo Minulio, l’arancia di San Giuseppe e l’annona di Reggio Calabra; per la provincia di Catanzaro: i fagioli, la graffiola e la seta di Cortale e la nocciolina di Cardinale e Torre; per la provincia di Cosenza invece il pane di Cerchiara
I prodotti calabresi a marchio Deco all’Expodeco di Genova
Nel Villaggio Deco verranno esposti, per la provincia di Reggio Calabria: le prugne di Terranova Sappo Minulio, l’arancia di San Giuseppe e l’annona di Reggio Calabra; per la provincia di Catanzaro: i fagioli, la graffiola e la seta di Cortale e la nocciolina di Cardinale e Torre; per la provincia di Cosenza invece il pane di Cerchiara
“Expodeco e delle identità territoriali” è una manifestazione nazionale dedicata all’identità territoriale, che mira alla promozione del territorio e delle sue risorse ovvero dei suoi prodotti, in un progetto di valorizzazione reale attento alla valenza della commercializzazione ed alla internazionalizzazione, nonché alla ulteriore valorizzazione concreta tramite la costituzione del “paniere dei prodotti di identità” a partire dai prodotti “Deco” (Denominazione comunale di origine). L’Expodeco si svolgera con eventi di medio termine itineranti: conferenza stampa di presentazione tenutasi a Reggio Calabria lo scorso 11 ottobre, talk-show che si terrà nel palazzo della provincia di Salerno giovedì 27 ottobre alle 11 e il VillaggioDeco che verrà allestito a novembre 2012 presso il “Padiglione Blu” della Fiera di Genova.
Nel Villaggio Deco non mancheranno i prodotti di denominazione comunale della Calabria che sono per la provincia di Reggio Calabria: le prugne di Terranova Sappo Minulio, l’arancia di San Giuseppe e l’annona di Reggio Calabra; per la provincia di Catanzaro: i fagioli, la graffiola e la seta di Cortale e la nocciolina di Cardinale e Torre; per la provincia di Cosenza invece il pane di Cerchiara.
PRUGNE DI TERRANOVA
Le tradizionali “Prugne di Terranova” a marchio De.C.O. (Denominazione Comunale di Origine) vengono coltivate nel comune di Terranova Sappo Minulio (RC). Esse vengono dette anche “prugne dei frati” (o “prùna dì fràti” in dialetto) poiché introdotte probabilmente sin dal ‘500 dai monaci benedettini celestini. Già nel 1691 Padre Giovanni Fiore da Cropani nella sua “Della Calabria illustrata” elencava tra le prugne presenti in Calabria anche “quelle dette di frati, quali sono molto nobili, e delicate”. E’ il primo prodotto a marchio De.c.o. della provincia di Reggio Calabria (e tra i pochi realmente esistenti e disponibili sul mercato) e nasce da un progetto di sviluppo integrato intrapreso nel 2007 dal giovane sindaco Savatore Foti e dalla sua attiva amministrazione comunale col supporto di consulenti esperti del settore.
Le “prugne di Terranova” si presentano con forma ellissoidale, ricoperte di pruina bianca e risultano di colore verde fino a maturazione (luglio-agosto) con riflessi dorati e viola intensi. Al sapore le “prugne dei frati” sono molto dolci ed aromatiche con retrogusto persistente vegetale (erbaceo) e fresco, lasciando in bocca una gradevole sensazione di acidulo sul finale. La polpa è consistente e densa, poco succosa ed il seme si stacca senza difficoltà.
Vengono raccolte dai soci della cooperativa agricola “Terranova” tra luglio ed agosto e commercializzate in cestelli da 1Kg e da ½ Kg singoli o in plateau.
La confettura di Prugne di Terranova Deco
La confettura Extra (con più del 60% di frutta) di Prugne di Terranova De.c.o. viene ottenuta previa selezione accurata delle susine al giusto grado di maturazione. Il prodotto si presenta denso e di colore giallo oro brillante con profumi intensi e persistenti. Le prugne utilizzate, denocciolate, vengono lavorate con tutta la buccia (visibile in piccoli filamenti) in quanto ricca di fibra e di antiossidanti.
La composizione della confettura “extra” è la seguente:
Ingredienti: polpa di Prugne di Terranova (> 60%), zucchero (36%), acido citrico, pectine di frutta
Valori nutrizionali medi: 100 gr
Valore energetico: 249 Kcal (1056 Kj)
Proteine: 0,0 gr
Carboidrati: 62,0 gr
Grassi: 0,0 gr
La confettura viene proposta in vasetti di vario peso (250 g, 230 g, 100 g, 50 g) e viene apprezzata anche all’estero per la sua bontà. Si degusta tal quale, sul pane o abbinata a formaggi sia freschi che stagionati. Si utilizza molto per i dolci della tradizione: crostate, torte, biscotti, ecc.
Le prugne secche di Terranova Deco
Le Prugne secche di Terranova De.c.o sono squisite, vere e proprie leccornie; non vengono denocciolate, così come si faceva un tempo quando si essiccavano al sole. La presenza del seme, conferisce struttura alle prugne essiccate, le quali in realtà conservano il giusto grado di umidità (essendo “semi-dry”) e vengono confezionate in atmosfera controllata, per mantenerne a lungo il profumo ed il particolare aroma. Inoltre la presenza del caratteristico seme con la “doppia punta” è garanzia assoluta di provenienza e genuinità. Le prugne secche presentano una lavorazione semi-industriale per mantenerne le caratteristiche tradizionali originali e vengono proposte in uno scatolo da 130 g.
I cosmetici a base di prugne di Terranova Deco
La “filiera Deco” si completa con i cosmetici ottenuti dalle bucce delle Prugne di Terranova De.c.o., le quali sono ricche di antiossidanti e proprietà nutritive. Cosmetici della linea “Pruna vitae” che da prototipo sperimentale si stanno affermando gradualmente sul mercato, valorizzando ulteriormente un prodotto De.c.o. ed il suo territorio di provenienza.
ARANCIA OVALE DI SAN GIUSEPPE
Col termine “Arancia di San Giuseppe” si intendono le specifiche varietà Belladonna e Biondo tardivo di San Giuseppe (probabile mutazione del Belladonna) della specie di arancio (Citrus sinensis) coltivate e diffuse nel territorio comunale di Reggio Calabria tra le vallate delle fiumare Gallico e Catonaed in particolar modo nella frazione di Villa San Giuseppe da cui il nome dell’agrume. Il disciplinare DE.C.O. prevede che l’arancio possa eventualmente coltivarsi anche in “aree cuscinetto” vocate e tradizionalmente interessate da questa coltivazione nei piccoli comuni limitrofi (appartenenti allo stesso “sistema delle vallate”), per circa 6 km dalla costa e tendenzialmente fino a 350 m slm.
L’Arancia di San Giuseppe si presenta come pianta di vigore medio e chioma espansa, di forma rotondeggiante, non molto fitta. Le foglie sono di forma ellittica, di colore verde intenso, con apice leggermente rotondeggiante. Il tronco ed i rami di oltre tre anni sono provvisti di coni gemmari, mentre i giovani germogli presentano internodi corti. Il tronco di questo Belladonna innestato su arancio amaro presenta al punto di innesto uno sviluppo maggiore rispetto al portainnesto. L’Arancia di San Giuseppe così definita è cultivar tardiva. Tra febbraio e marzo è possibile apprezzare i primi frutti la cui maturazione completa avverrà tra aprile e maggio; i frutti possono mantenersi bene sulla pianta anche fino a giugno.
Il frutto, di colore arancio è di forma ovale (a volte sub ovoidale), è apirene (o presenta pochissimi semi: in genere da 1 a 3) e di dimensioni medie di 7,5 cm di diametro mediano e fino a 8 cm mediamente di diametro longitudinale. Esso presenta un peso medio di 220 g. Lo spessore della buccia è medio (5-6 mm) con superficie mediamente papillata. La polpa è ricca di succo (sempre >51%).
Un sapore dolce e persistente
L’esperidio dell’ ”Arancia di San Giuseppe” presenta unaelevata concentrazione zuccherina che tende ad aumentare da marzo a maggio. La resa in succo diminuisce verso maggio-giugno così come l’acidità. Risulta buona la concentrazione di vitamina C a maggio, che può raggiungere i 43,20 mg/100 ml. Variazioni non significative si riscontrano tra le aree della vallata del Gallico e la vallata del Catona anche per la differente composizione dei terreni nei due ambienti.
Dall’arancia di San Giuseppe è possibile ottenere succhi bevibili, marmellata, miele e produzioni dolciarie.
ANNONA TROPICALE DI REGGIO CALABRIA
Col termine “Annona di Reggio” si intendono le specifiche varietà della specie di Annona cherimola Mill. coltivate e diffuse nel territorio comunale di Reggio Calabria ed “aree cuscinetto” dei comuni limitrofi o viciniori ma vocati. In particolare ci si riferisce alle varietà commerciali di origine spagnola acclimatate tra cui Fino de Jete e Campas (meno diffusa) nonché alle cosiddette “varietà locali” o “varietà deformi”, probabilmente derivanti da seme e selezionate spontaneamente o dagli agricoltori negli anni presso i territori maggiormente vocati.
L’anona (o “annona” o “nonu” in dialetto) si presenta come pianta arborea dall’altezza superiore ai 2 m, con fusto non molto sviluppato e con chioma fitta e portamento reclinante, foglie larghe e appuntite. L’Anona, a seconda delle varietà, comincia la fase di fioritura in maggio e prosegue ad agosto ed in alcuni casi fino ad ottobre, a cui segue scalarmente la fase di allegagione e di inizio maturazione tra fine agosto e settembre. Il calendario di raccolta pertanto comincia a fine settembre e termina a dicembre.
I migliori frutti (peso, contenuto zuccherino, forma) sono quelli provenienti dalla prima parte del calendario di fioritura ed allegagione (luglio). Il frutto, della varietà spagnola appare di colore verde brillante anche a maturazione e di forma omogenea cordiforme o conica, con buccia sottilissima ed areole omogenee e mediamente depresse. Il frutto delle varietà locali è spesso con buccia più liscia, di colore tendenzialmente verde-giallo con macchie e venature marroni e di forma irregolare e spesso deforme. Il peso medio è di 210 g (ma può arrivare anche a 500 g), polpa morbida di colore bianco-crema (con una resa dell’80% circa del frutto), poco succosa e ricca di semi (incidenza media pari all’8-10% in peso del frutto ed in numero da 20 a 40 mediamente).
Un sapore dolce e aromatico di tipo “esotico”
Il frutto della “Annona” matura in pochi giorni dopo la raccolta ed è di difficile conservazione. Esso presenta una elevata concentrazione zuccherina (variabile da 16 a 25 ° Brix) ed una polpa morbida e cremosa, poco succosa ed aromatica di colore bianco-crema ed è ricca di vitamina C ma anche di semi di colore nero. Matura in pochi giorni dopo la raccolta ed è di difficile conservazione. Il profumo intenso e l’aroma, molto delicati, sono simili a quelli della banana, della fragola, dell’ananas e di altri frutti tropicali. Si apprezza, per la sua degustazione, al giusto grado di maturazione (in qualche caso meglio se tendente all’inizio della sovramaturazione) e tagliata a metà da gustare col cucchiaio a spicchi (in 4 parti) da mordere.
Tradizionalmente con l’Annona possono essere realizzati anche prodotti dolciari (gelato, sorbetto, marmellata, dessert vari).
FAGIOLI DI CORTALE
La suggestiva cittadina di Cortale è posta tra le fiumare Pilla e Pesipa ad un’altezza di 400 m slm tra la Piana di Lamezia Terme e l’istmo catanzarese; le amene vallate con splendidi boschi di castagno e faggio che lasciano gradualmente il posto alle pinete, arrivano fino ad un’altitudine di 800 m slm. Grazie ad un terreno fresco, fertile e ricchissimo di acqua si coltivano grano, mais, ortaggi e soprattutto i rinomati“fagioli di Cortale”.
Padre Giovanni da Fiore già nel 1691 indicava Cortale quale villaggio di Maida e rifacendosi al cinquecentesco Barrio ne esaltava il territorio “fecondo di frumento ed altre messi, atto al pascolo, all’uccellaggione ed alla caccia”. John Arthur Strutt nel suo avventuroso viaggio in Calabria del 1841, da bravo artista esaltò i paesaggi boschivi ma anche le delizie gastronomiche e l’abbondanza delle pietanze di Cortale citando tra le colture di legumi i “campi di lupini”.
I paesaggi rurali del luogo vengono ripresi anche dal famoso pittore ottocentesco cortalese, il garibaldino Andrea Cefaly. L’Italia agricola nei primi anni postunitari fu descritta dalla cosiddetta “Inchiesta Jacini” svolta dal senatore Stefano Jacini (per conto del governo tra il 1877 ed il 1882) il quale tra le sue descrizioni, riprese anche successivamente nelle Memorie del senatore Antonio Cefaly (1850-1928), descrive i fagioli di Cortale: “Si coltivano, con risultato tale da permetterne l’esportazione nei paesi vicini, le patate ed una quantità di fagioli bianchi, chiamati volgarmente rognone (reniformi, galletti) che sono di sapore squisito e di facile cottura”. Cefaly nel 1880 scrive: “Il contadino coltivatore di questo mandamento (…) si ciba di solo pane di granone ed alla sera mangia in seno alla sua famiglia una minestra di erbe e per lo più di patate o fagiuoli – un terzo di chilo – con scarsissimo o nessun condimento”. Nel 1933 si ha una prima descrizione e classificazione dei fagioli di Cortale ad opera di A. Montagna in un articolo intitolato “La coltivazione del fagiolo nel Maidese” apparso su “Calabria agricola”. Oltre alle varietà rampicanti egli descrive le “varietà nane più pregiate”: la Ziccarella, il Rognone, l’Ammelatella bianca, la Tonda bianca o a grappo, laGialla, la Colostrina. Nel 1934 Montagna scrive ancora: “L’alimentazione (…) si compone essenzialmente (fagioli, zucche, patate, scariole, ecc.) lessate e condite con olio e sale in un grande bacile chiamatopiatto”. Riportato nei testi di coltivazione erbacee come “fagiolo cortalese”, in realtà il fagiolo autoctono consta di differenti varietà coltivate da sempre nell’areale di Cortale. Gli ecotipi sono stati selezionati naturalmente negli anni dai contadini locali e la coltivazione della leguminosa viene tramandata con orgoglio da padre in figlio.
Fagioli la cui biodiversità viene ancora conservata contro l’erosione genetica delle varietà più “commerciali” cominciata già negli anni ’40. Denominazioni, definizioni e varietà di fagiolo sono state determinate nel tempo e custodite dai contadini del luogo i quali con rotazioni intensive biennali riuscivano ad ottenere quattro prodotti in due anni: mais con fagioli (o patate), grano, fagioli e loglio italico. Oggi addirittura qualcuno in serra sperimenta l’ottenimento di un doppio raccolto annuo di “posa”.
La “fagiola” pertanto costituisce il prodotto emblematico per l’intero comprensorio e da poco è stato valorizzato grazie al marchio De.C.O. (Denominazione Comunale di Origine) attribuito dall’amministrazione comunale guidata dal giovane sindaco (e agronomo) Francesco Scalfaro.
Le cinque varietà di fagioli De.c.o.
Le varietà di “posa” (forse da Phaseolum ?) localmente coltivate sono le seguenti: Reginella bianca (detta “ammalatèddha” poiché varietà più delicata e soggetta a malattie), Reginella gialla(detta a volte Cocò gialla piccola), Cannellina bianca(o Rognonella per la forma “a rene”, in dialetto “rugnùni”), Cocò gialla (detta “limunìdu” per il colore che richiama il limone), Cocò bianca. In linea di massima le varietà Reginella e Cannellina possono essere annoverate alla categoria dei fagioli bianchi italiani “cannellino” mentre le varietà gialle appartengono probabilmente al gruppo dei fagioli “zolfini”, entrambe di antica origine toscana. Le prime tre sono quelle più diffuse; si seminano a spaglio (circa 60-70 kg/ettaro di seme) alla fine di giugno e la raccolta avviene a fine settembre. Le varietà “Cocò” sono tardive e più resistenti, vengono seminate i primi giorni di giugno mentre la raccolta avviene ad ottobre. Tra le prime e le varietà tardive vi è una differenza di circa 20 giorni in termini di maturazione. La resa per tutte è di circa 15 q/ettaro.
La lavorazione del fagiolo di Cortale è tradizionale. Quando il baccello è maturo, le piante essendo di piccola dimensione, vengono estirpate a mano. Queste vengono riunite in mazzetti e appese su fili tesi anche su tre ordini oppure sugli alberi di fico più vicini. Quando i mazzetti sono quasi completamente secchi dopo circa due settimane, vengono distesi in terra in strati sottili per evitare i marciumi dovuti a ristagni di umidità nella parte ancora verde. Quando la pianta è completamente secca avviene la battitura manuale: il baccello rimane attaccato al fusto ma si apre completamente ed i fagioli “saltano” fuori. Segue la separazione manuale tra i resti della pianta e la granella tramite l’agitazione dei crivelli (o “crivi”) sotto vento come si faceva per il grano. A questo punto si effettua la selezione manuale (“spulicatùra”) del prodotto migliore per la quale, un tempo come oggi, veniva coinvolta tutta la famiglia e gli amici che attendono l’appuntamento autunnale per scegliere con soddisfazione, chiacchierando magari vicino al camino, i fagioli “più belli”. Di seguito i fagioli vengono adagiati al sole o in serra tunnel su teli per l’essiccazione completa. Questo consente loro di mantenersi intatti anche per due anni e di non mutare colore se non colpiti dalla pioggia. Per evitare lo sviluppo eventuale del Tonchio del fagiolo (“papùzza”), spesso i fagioli vengono tenuti per 4-5 ore in congelatore al fine di ucciderne le eventuali uova presenti. Successivamente vengono posti di nuovo al sole per poi essere conservati nei sacchi di yuta, in cassette o in ceste. Nel caso di appezzamenti coltivati molto vasti, l’estirpazione delle piante avviene a mano ma la separazione tra la pianta ed il fagiolo avviene però tramite fresa che funge così da battitore meccanico: le piante con una pala vengono poste sotto gli organi rotanti da un lato per cui dall’altro fuoriusciranno i fagioli e le piante ben separati tra loro. La raccolta e la selezione successiva per l’essiccazione completa al sole avverrà manualmente. Il prodotto viene venduto soprattutto sfuso direttamente in azienda o presso i mercati locali ad un prezzo che va da 5 a 8 euro/kg. Rinomata è la fiera di Borgia (CZ) che si tiene il 4 novembre di ogni anno e presso la quale si riesce a spuntare un prezzo anche superiore.
L’istituzione del marchio De.C.O. e l’introduzione di confezioni particolari oltre alla attivazione di azioni di promozione e di marketing (tra cui l’evento “La posa e la seta”), fanno sperare in una maggiore remuneratività e sviluppo del prodotto così come è accaduto per altri prodotti a Denominazione Comunale di Origine in Calabria. Anche a Cortale infatti grazie alle iniziative in corso si stanno riavvicinando alla coltivazione del fagiolo tradizionale anche i giovani riuniti in cooperativa. Piccoli o grandi, di colore chiaro o scuro, i fagioli sono sempre stati apprezzati in cucina; nel Cinquecento erano considerati un alimento regale e facevano parte dei ricchi doni che i nobili dell’epoca si scambiavano in occasioni speciali. Una valenza che è andata perduta nel corso dei secoli, ma non nella cultura contadina, fino a rendere il fagiolo un ingrediente della cucina povera oggi pienamente rivalutataDal punto di vista gastronomico la “fagiolata”è pertanto una pietanza tipica di Cortale: la sagra del fagiolo con le fagiolate abbondanti si svolge generalmente in dicembre. La fagiolata viene preparata nelle classiche pignate in terracotta facendo cuocere a fuoco lento fagioli, acqua e sale. Ogni varietà ha tempi di cottura differenti. Generalmente le varietà Cannellina bianca e Cocò gialla (che a cottura diventa rossa) vengono consumate cotte e tal quali. La varietà Reginella viene anche aromatizzata nel piatto e si gusta con la pasta corta mentre la Cannellina viene cucinata anche con le scilatelle (tipo di pasta diffusa in Calabria); la Cocò gialla e la Cocò bianca si usano anche per la “zuppa di funghi e fagioli”. In genere il gusto della varietà Cannellina è più delicato mentre le varietà gialle risultano più digeribili. La varietà Cannellina (o Rognonella) in quanto più delicata e particolare nella forma, viene acquistata soprattutto per farne dono ad amici e parenti. Una recente ricerca su “Le leguminose da granella in Calabria” (2010) pubblicata dall’ARSSA in collaborazione con l’Università degli Studi “Mediterranea” di Reggio Calabria e l’ENEA, ha classificato e caratterizzato alcune delle varietà di fagiolo cortalesi e di alcune ne ha determinato la valutazione e la caratterizzazione sensoriale da cui si evincono interessanti peculiarità. La varietà Cocò bianca risulta quella con minore tempo di cottura (60 minuti). All’esame visivo in termini di resistenza alla cottura la granella tende a sfarinarsi mentre il colore si conserva. All’esame gustativo la buccia si dissolve facilmente, la polpa tende allo sfarinato, il gusto naturale risulta tra il dolciastro ed il sapido, il gusto condito è esattamente tra il dolce e l’erbaceo, il brodo risulta cremoso. A ciò possiamo aggiungere un indice di digeribilità alto ed un altrettanto alto indice di gradimento organolettico complessivo. La Cocò gialla invece presenta un tempo di cottura medio-alto (100 minuti), resiste maggiormente alla cottura rimanendo tendenzialmente integra ed il colore diventa di un rosso caratteristico. Al gusto la buccia tende a permanere coriacea e la polpa consistente. Il gusto naturale è tra il dolciastro ed il sapido ed il gusto condito è tra il dolce e l’erbaceo come per la Cocò bianca. Il brodo invece risulta acquoso. Ulteriori utili iniziative di ricerca sono in corso da parte del Dipartimento BIOMAA dell’università reggina e da parte dell’Istituto di genetica vegetale del CNR di Bari. Oggi, il sig. Rosario Fruci, energico agricoltore sessantenne ci racconta che “coltiva i fagioli in contrada Cancello a Cortale sin da piccolo e prima di lui lo faceva suo padre, seminando con attenzione le varietà ereditate, in quantità di 2,5 tòmoli su circa 6tumolàte di terreno” (ovvero: 135 Kg per circa 2 ettari). Egli è visibilmente fiero della propria produzione tradizionale e del fatto che anche altri agricoltori del comprensorio attingono dalla sua granella per rinnovare periodicamente le proprie coltivazioni. Un esempio concreto e mirabile di generosa salvaguardia della biodiversità. Un esempio importante tra tanti, genuinamente inconsapevole e spontaneo, tipico della cultura contadina calabrese.
GRAFFIOLA DI CORTALE
La “graffiòla” è il dolce tradizionale cortalese le cui origini sono molto antiche. Gli anziani di Cortàle (CZ), ricordano che da bambini le graffiòle erano i dolci della festa e dei matrimoni: tra i dolciumi realizzati e offerti per l’occasione la graffiòla era quello preferito da tutti. Già negli anni ’30 le famiglie nobili incaricavano le anziane depositarie di quest’arte le quali, per l’occasione nuziale, si trasformavano in provette pasticcere e riproponevano la tradizionale ricetta; ricetta che oggi come allora rimane pressoché inalterata con i segreti delle dosi ed i trucchi della preparazione.
Gli anziani e simpatici coniugi Antonio e Angela Muraca dell’omonimo panificio di Cortale ricordano ancora con nostalgia l’attesa nelle occasioni importanti per gustare le prelibate graffiòle, le quali “se realizzate più grandi, tagliate e riempite di crema pasticcera oppure quando unite in coppia dalla crema stessa, prendevano in nome di “sospiri di monaca”. Negli anni’60 inoltre, così come ci racconta la giovane Lucia Occhiuto titolare dell’altro panificio cortalese, interi gruppi familiari prendevano in prestito il panificio per due o tre giorni con lo scopo di preparare tutti i dolci del matrimonio oltre che le graffiòla, la cui preparazione veniva lasciata alle esperte graffiolàre il cui nome ancora oggi viene ricordato: Teresa Pellegrino, Tommasina Saraceno, Lina Ceola, Chiara Surianello e addirittura prima degli inizi del secolo scorso le sorelle “Viluotte”. Una tradizione, dunque, tutta al femminile. E ancora oggi in alcuni piccoli paesi del catanzarese le graffiòle e i tarallucci dolci vengono serviti prima dell’uscita di casa della sposa .
La preparazione della graffiòla è un vero e proprio rito che si tramanda da madre in figlia (o da suocera a nuora come nel caso della sig. ra Angela con la giovane Giovanna) e richiede fasi precise ed una manualità particolare. Un’arte vera e propria che consente oggi come cento anni fa di ottenere un prodotto d’eccellenza con materia prima semplice e genuina, senza l’uso del lievito, tramite un forno a legna e tanto lavoro: in due ore circa si ottengono solo 2,5 Kg di graffiòle ed una gran quantità di prelibati dolcetti tenuto conto dell’estrema leggerezza del prodotto.
La sig.ra Angela (con il suo scialle tradizionale dai disegni caratteristici dell’arte tessile cortalese) aiutata da Giovanna si mette subito all’opera. Il suo fare è rapido e denota grande padronanza rispetto a ciò che sta per “creare”, mentre il suo sguardo profondo e tranquillo mostra attaccamento alla tradizione che si sta per compiere e voglia di mostrare ciò che avverrà.
La lunga preparazione
La preparazione della graffiòla comincia con la rottura delle uova dalle quali si divide il tuorlo dall’albume. Con 45 uova si possono ottenere anche 200 graffiòle. Al tuorlo viene aggiunto prima lo zucchero e poi la farina e viene montato a mano (un tempo con l'”ingegno” in legno) o con piccole fruste elettriche. Le dosi non sono scritte ma le donne vanno “a sensazione” ovvero aggiungono lo zucchero e poi la farina fino a conferire la giusta consistenza. E’ importante la tipologia di uova utilizzate: uova troppo ricche di acqua, come quelle estive in seguito alle esigenze del pollame, determinano un albume troppo acquoso ed un prodotto finale meno morbido e gonfio che richiede una maggiore permanenza in forno. E l’umidità è fondamentale per la qualità delle Graffiòla: l’umidità dell’impasto, l’umidità dell’ambiente e l’umidità dell’aria da cui deriva l’importanza della corrente d’aria all’interno del forno a legna che dovrà “avere sportelli aperti e sportelli chiusi alternativamente al fine di far entrare l’aria che aiuta la graffiòla a gonfiare…. ma non troppa”. Infatti la graffiòla dovrà rimanere alta e soffice e non dovrà “sgonfiarsi” una volta cotta, glassata e confezionata.
Il segreto di ciò sta però nella seconda fase di preparazione: la montata “a neve dell’albume” ottenuta esclusivamente a mano con la frusta e solamente nel pentolone in rame come un tempo. L’albume cambia colore e consistenza gradualmente, da trasparente e liquido a bianco e cremoso mentre viene montato velocemente. La fatica è tanta e spesso occorre alternarsi in circa venti minuti di “frusta continua”. Ed e proprio la montatura a mano e probabilmente la “caddàra” in rame che garantiranno la sofficità e la consistenza della graffiòla: laddove si sono sperimentati procedimenti meccanici anche semplici, per risparmiare fatica, la graffiòla è risultata più piccola, meno gonfia e più soggetta all’afflosciamento.
Quando la montata è pronta ovvero quando sollevando la frusta, l’albume rimarrà aderente e “fermo”, allora si versa lentamente nel pentolone quanto si è amalgamato precedentemente nell’altro contenitore: tuorlo, zucchero e farina. I due impasti devono uniformarsi nel grande pentolone di rame per cui si provvede ancora ad agitare la massa continuamente e a mano. Fino ad arrivare al colore crema ed alla densità giusta ovvero quando “nella frusta sollevata non rimane più l’impasto il quale scivola e cola morbidamente”.
A questo punto si possono “stampare a mano” le graffiòle; si dispone la carta rustica sulle teglie in metallo e si dispongono gli abbozzi delle graffiòle: con un semplice cucchiaio di ferro, grande come quelli di una volta, Angela attinge l’impasto cremoso dal pentolone ed in maniera decisa e delicata allo stesso tempo, con un movimento sicuro lo dispone ruotando in maniera precisa il cucchiaio conferendo la giusta forma alla graffiòla. Un movimento ripetuto chissà quante migliaia di volte anche da chi prima di lei realizzava con amore le graffiòla; una movenza della mano che, alla fine, ruota quasi impercettibilmente ad “S” per accompagnare l’ultima goccia di impasto a chiudere la forma regolare del dolcetto. E così via.
La lenta cottura ed il profumo inebriante
Quando ogni teglia è riempita ordinatamente e completamente si inserisce in forno a 250° per venti minuti o mezzora.
E intanto si prepara la glassa: acqua e zucchero si mettono a bollire (generalmente 1 litro di acqua ed 1 Kg di zucchero). Le bollicine aumentano progressivamente e la “prova cucchiaio” che si solleva sulla pentola per osservare la densità dello “sciroppo” anche qui è importante per osservare la giusta consistenza di ciò che ricoprirà le graffiòla conferendone ulteriore sapore e lucidità. Intanto le graffiòle in forno cambiano lentamente colore: tendono verso il dorato e la cottura giusta si ha “quando si prova a staccarle dalla carta della teglia e vengono via subito senza sforzo”. A questo punto si estraggono gradualmente le teglie dal forno e si procede alla spennellatura con la glassa.
Il profumo delle graffiòle ancora calde e fragranti è quasi inebriante. I movimenti del pennello guidato da mano veloce e decisa determina un vero e proprio vernissage che stratifica la glassa a più riprese sulle soffici graffiòle, fin quando il colore della superficie ormai lucida non diventa bianco suggellando così la fine del procedimento. A questo punto il lavoro è terminato e le graffiòle vengono delicatamente poste sui vassoi da 200 gr, da ½ Kg e qualche volta da 1 Kg: una Graffiòla pesa mediamente 10-12 gr per cui in 1Kg ne troviamo anche 80-90. E per farne 2 kg Angela e Giovanna hanno impiegato quasi due ore di intenso e attento lavoro.
Qualcuno oggi pensa anche alle varianti moderne della graffiòla: Lucia Occhiuto ad esempio prova col cioccolato oppure col cioccolato bianco al posto della glassa e con la granella di nocciole o mandorle per creare disegni ed effetti quasi artistici. In ogni caso la “Graffiòla di Cortale” a marchio De.C.O. (Denominazione Comunale di Origine) rimane un esempio mirabile di tradizione dolciaria e di salvaguardia dell’identità culturale. Oggi come ieri.
LA SETA DI CORTALE
L’arte della tessitura a Cortale (CZ) è stata sempre presente: le donne di Cortale indossavano degli scialli in lino, cotone e in seta con disegni e colori molto particolari (derivanti da tinte naturali) e ben riconoscibili come ad esempio quelli a strisce, fino ai primi del ‘900.
Il famoso glottologo ed antropologo tedesco Gerhard Rohlfs, nel 1924 ritraeva le donne di Cortale antica nel loro costume caratteristico e sull’uscio di casa con il”fuso” ed il “filatoio”.
Cortale stessa fino alla fine dell’800 faceva parte del cosiddetto “triangolo della seta” (Cortale, Borgia, San Floro) quale territorio di grandi produzioni di seta e tessuti serici di qualità con i quali veniva rifornita la grande e rinomata industria della seta di Catanzaro, le cui origini si fanno risalire addirittura all’anno mille con una crescita di tale attività che raggiunse il culmine nel ‘600 per poi andare incontro ad un declino progressivo due secoli dopo. Da quì la grande diffusione del Gelso (Morus alba e Morus nigra) delle cui foglie si nutrivano i bachi da seta (Bombyx mori).
E la bachicoltura era un’attività familiare: tutti in casa allevavano i bachi sui telaietti per poi fornire i bozzoli (bianchi o gialli) da cui trarre il prezioso filamento tramite tecniche ormai oggi scomparse.
Ma a Cortale i coniugi Marianna e Nicola Procopio ed un’associazione femminile da più di dieci anni portano avanti l’antica tradizione serica allevando i bachi, ottenendone la seta e producendo rari e preziosi manufatti, venduti ed esportati ovunque: coperte, copricoperta, tovaglie ed asciugamani, cuscini, centri, paralumi, scialli e sciarpe, sacchettini e bomboniere. Produzioni uniche e preziose in quanto tutte diverse l’una dall’altra in quanto realizzate a mano e con l’antico telaio e per questo veri esempi di arte e di design.
Un’attività di filiera, dal baco alla seta, che si è tramandata da generazione in generazione e che forse in Italia è unica. Per cui la “Seta di Cortale” non poteva non fregiarsi del marchio De.c.o.
PANE DI CERCHIARA
Il pane è definibile come un’opera d’arte. Esso è come se già esistesse: quasi come una manufatto che l’artista deve tirare fuori dall’argilla. Il panificatore con i suoi riti quotidiani, i suoi segreti, con un faticoso “corpo a corpo” modella l’impasto di farina ed acqua e lo vede “nascere” e “vivere” ovvero crescere grazie al lievito il quale rende il pane una creatura vivente vera e propria, di cui il fornaio è orgoglioso. Possiamo dire che alla base della produzione del pane vi sono la terra, il fuoco, l’aria, l’acqua, il lievito, il tempo e la manualità: elementi naturali e gesti che quasi come un rito quotidiano hanno accompagnato la storia dell’uomo e certamente caratterizzano la vita delle generazioni di panificatori. Orgoglio e tradizione che si trasmettono di padre in figlio e, per il pane domestico, trasmessi da madre a figlia tramite quelle ricette orali e quei segreti che si svelavano durante gli incontri delle donne per “fare il pane della festa”: momenti di allegria, di condivisione di informazioni, di racconti, di fatti e rivelazioni. La produzione del pane “fatto in casa” costituiva (e costituisce) elemento di socializzazione dal quale emergeva chiaramente quella simbologia popolare che si concretizzava poi nelle più disparate tipologie di cottura o di forme “magiche” dai nomi più vari, magari con funzione decorativa per le festività religiose o per i matrimoni: pani tondi o oblunghi, alti o bassi, forati, intrecciati, merlettati, con figure umane o di animali, decorati, conditi, e così via. Creatività domestica che nel tempo si è trasferita in quei “laboratori” che oggi chiamiamo panifici.
Anche il pane così come gli altri prodotti a Denominazione Comunale di Origine (De.c.o) diventa emblema di un territorio e di un Comune, essendone spesso prodotto identitario ovvero identificandosi con esso. Ed è quanto ha voluto affermare con forza il sindaco di Cerchiara di Calabria (CS) Antonio Carlomagno il quale con la sua amministrazione comunale ed insieme ad alcuni panificatori locali, ha intrapreso l’importantepercorso di valorizzazione e di tutela del rinomato Pane di Cerchiara. Si perché è stato scoperto che spesso viene commercializzato fuori dai confini comunali anche quel “falso” Pane di Cerchiara che non proviene dai forni presenti all’interno del territorio comunale, a discapito dunque di quei panificatori che con fatica, mantengono intatta la tradizione del “pane scanato”. Un pane che può pesare da 2 a 12 kg (ma può arrivare anche a 20 kg) e che assume una forma particolare grazie alla “scanatura” che si effettua, con mani sapienti, durante la lavorazione e che determina la “resella” o “sella” sulla pagnotta; una pagnotta la cui conformazione gobbosa ricorda proprio Monte Sèllaro che dal Parco Nazionale del Pollino domina sull’antica Cerchiara di Calabria.Il pane di Cerchiara è un pane “al femminile”, visto che sono proprio le donne ad essere le titolari dei panifici attivi e ad essere le depositarie della singolarità del “loro” pane: l’impasto, la cui specificità deriva sia dalla bontà dell’acqua locale sia dalla attenta selezione delle farine di grano tenero ed in parte aggiunte di crusca, viene fatta lievitare con “lievito madre” (pasta acida) e poi cotta nel forno a legna la cui base è costituita da mattoni tradizionali, i quali cedono gradualmente il calore a partire dal momento in cui il tetto del forno diventa bianco e possono iniziare le quattro ore di cottura lenta; il pane conserverà a lungo la fragranza e si potrà consumare anche dopo molti giorni. Ogni panificatore ha i suoi segreti: dalla “pasta acida” che si tramanda e si rigenera continuamente (e che rispetto al lievito di birra conferisce maggiore qualità al pane), al momento esatto in cui la base di mattoni del forno con la legna ardente puà essere liberato e pulito con lo “scopolo” per poi iniziare l’inserimento dei candidi “palloni” scanàti da cuocere. Ma a tutti loro fa piacere, se entrate a far visita, sentirsi dire: “San Martino !”. Vi risponderanno con un caloroso “Benevenuto !”.
Un pane prezioso dalle antiche origini e con valenze rituali ancora vive: la “resella” a tavola viene offerta all’ospite più importante. Un pane che spesso quando viene tagliato longitudinalmente assume la forma di cuore; è il caso di dire”un cuore di pane”.
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