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TAURIANOVA (RC), MERCOLEDì 08 MAGGIO 2024

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Caso giudiziario Seby Romeo, scoppia la polemica all’interno del partito democratico Azione riformista – Pd Calabria : "Dichiarazioni di Oddati e Graziano su Seby Romeo tardive e farisaiche". ALL'INTERNO DELLA NEWS LA SENTENZA INTEGRALE DELLA CORTE DI CASSAZIONE

Caso giudiziario Seby Romeo, scoppia la polemica all’interno del partito democratico Azione riformista – Pd Calabria : "Dichiarazioni di Oddati e Graziano su Seby Romeo tardive e farisaiche". ALL'INTERNO DELLA NEWS LA SENTENZA INTEGRALE DELLA CORTE DI CASSAZIONE
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La dichiarazione congiunta del coordinatore della segreteria nazionale del PD, Nicola Oddati e del commissario regionale del partito in Calabria, Stefano Graziano, in relazione alla sentenza della Corte di Cassazione, sulla vicenda giudiziaria dell’ex consigliere regionale Seby Romeo è tardiva e, per molti aspetti, farisaica.
Anche in questa occasione, nel versare le proverbiali lacrime di coccodrillo, hanno riproposto il modus agendi di un partito sempre meno autonomo culturalmente e politicamente e sempre più subalterno alle spinte populiste e giustizialiste. Le motivazioni della sentenza della Corte di Cassazione rendono giustizia e chiariscono definitivamente che la condotta del capogruppo del PD stata improntata a principi di correttezza, trasparenza e legalità. Per quanto ci riguarda, abbiamo manifestato, sin dal primo momento, di non avere mai avuto dubbi al riguardo, soprattutto dopo aver letto l’ordinanza del GIP in cui, già all’epoca dei fatti, emergeva un’assoluta inconsistenza del quadro accusatorio. Senza se e senza ma, molti di noi, dirigenti e militanti del PD calabrese, non abbiamo esitato a commentare nella stessa direzione che oggi la Suprema Corte ha sancito: “accusa del tutto congetturale”, ovvero è così lampante l’infondatezza che qualsiasi altro giudice non può che giungere a queste stesse conclusioni. Un effetto demolitorio completo e definitivo.
Il rapporto distorto tra inchieste e politica ha prodotto danni acuti, poiché oltre le persone si sono falcidiate idee, progetti collettivi, libertà civili e politiche. Non è in discussione l’azione penale ma l’uso politico strumentale con cui si determina una percezione dell’opinione pubblica di condanne preventive, processi mediatici, sentimenti di rabbia e ribellione fondati sul nulla. Il modo con cui con troppa leggerezza si accomunano indagini di mafia e non, come in questo caso specifico, generano
un corto circuito del sistema giustizia con effetti devastanti tra i più disparati: dalla violazione del principio di separazione dei poteri alla violazione delle libertà costituzionali.
Non si tratta di mettere in discussione il ruolo della accusa nell’ambito del procedimento penale.
È fuori discussione, però, che l’azione penale è parte di un procedimento più ampio, fino al pronunciamento con sentenza definitiva. Tutto questo ci è chiaro e ci è caro ma evidentemente non lo è per l’attuale gruppo dirigente nazionale del PD che, invece, anche in questa vicenda, ha inteso agire tale che viene da chiedersi se ci sia stato, da parte loro, un uso strumentale della giustizia funzionale agli assetti elettorali del centrosinistra a cui si è poi pervenuti alle elezioni per il rinnovo del consiglio regionale.
Proprio in questo momento, non si può tacere che solo qualche giorno prima dell’arresto del capogruppo Romeo, l’orientamento del Nazareno era di ripartire dall’esperienza amministrativa guidata da Mario Oliverio e di costruire un largo consenso intorno ad essa (Assemblea provinciale PD Cosenza tenutasi a Rende il 27 Luglio scorso, alla presenza di Nicola Oddati). Solo qualche minuto dopo la notizia dell’arresto, forse prima ancora che la vicenda avesse occupato ampio spazio sulla stampa, il Segretario nazionale del PD Nicola Zingaretti, invece, si affrettava a dichiarare che in Calabria il PD non avrebbe ricandidato Oliverio. Contestualmente, a seguire, è arrivata la sospensione per Romeo: una sentenza politica ingiustificata e non prevista dallo Statuto del PD, soprattutto dopo che il pubblico ministero titolare delle indagini, correttamente, aveva chiarito l’equivoco della connessione mediatica di questo procedimento con quello antimafia, riguardante la cosca Libri di Reggio Calabria.
Il principale partito del centrosinistra italiano, in una torsione olimpionica e superando anche i più incalliti giustizialisti, dava così il via ad una epurazione politico – giudiziaria senza precedenti in Calabria.
Le conseguenze politiche sono state devastanti: da allora si è assistito ad una linea politica di piombo portata avanti con minacce, direttive, commissariamenti, arroccamenti e sbrandellamento del centrosinistra calabrese. La Giustizia può restituire l’onore e la verità come in questo caso per Romeo, la politica, invece, non potrà mai restituire a migliaia di iscritti, militanti e simpatizzanti del PD il diritto di portare avanti, democraticamente, le proprie idee, la propria visione politica e di governo, la propria convinzione di poter cambiare in meglio le cose.
Da quel momento nulla fu come prima: il dissenso normalizzato, i gruppi dirigenti scomodi decapitati, le regole democratiche calpestate, una intera comunità vilipesa ed offesa. Tutto ciò è stato possibile perché una normale vicenda giudiziaria è stata utilizzata quale arma contundente per

purgare chi dissentiva dalla linea, poi elettoralmente sonoramente sconfitta, del Segretario nazionale.
Anche se le motivazioni sono state rese pubbliche ieri, non è banale sottolineare, inoltre, che la sentenza della Suprema Corte è del 17 Dicembre 2019 ed a quella data non una parola di solidarietà da parte di Graziano ed Oddati. Da parte loro si riabilita Romeo a distanza di sei mesi dall’emissione della sentenza. E’ uno dei pochi casi in cui l’esecuzione della pena continua anche dopo la declaratoria di innocenza. Sembra quasi che Romeo venga riaccolto tra le braccia del partito non tanto per la sua piena innocenza ma per il suo “comportamento esemplare verso il partito” ed il suo “silenzio”.
Del resto, questo spiega perché la decisione, anch’essa demolitoria, della Suprema Corte che ha evidenziato un “pregiudizio accusatorio”, addirittura da configurare un accanimento persecutorio, nei confronti del presidente Mario Oliverio, non abbia trovato uguale risposta ed accoglimento, né da parte del segretario Zingaretti, né da parte dei suoi commissari inviati in Calabria.
Per tutti questi motivi consideriamo l’intervento di Oddati e Graziano fuori tempo, inopportuno e privo di efficacia risarcitoria.
La storia della Calabria ha subito una grave ingiustizia, una compressione dei diritti politici senza precedenti nella storia repubblicana, una ferita democratica senza precedenti. Una vicenda che merita quanto meno delle scuse formali prima di tutto a Romeo ma anche a Mario Oliverio e a tutto il popolo del PD che ha subito, insieme a lui, la privazione delle libertà civili e politiche.

SENTENZA CASSAZIONE INTEGRALE ROMEO SEBASTIANO

Penale Sent. Sez. 6 Num. 15724 Anno 2020 Presidente: TRONCI ANDREA
Relatore: DI STEFANO PIERLUIGI
Data Udienza: 18/12/2019
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
ROMEO SEBASTIANO nato a PADOVA il 07/05/1975
ROMEO FRANCESCO nato a MONTEBELLO IONICO il 06/11/1966
avverso la sentenza del 16/08/2019 del TRIB. LIBERTA’ di REGGIO CALABRIA udita la relazione svolta dal Consigliere PIERLUIGI DI STEFANO;
sentite le conclusioni del PG MARIA GIUSEPPINA FODARONI che conclude per l’annullamento con rinvio per entrambe le posizioni.
Uditi:
l’avvocato MARIA NISI LORIS in difesa di ROMEO FRANCESCO, che chiede l’annullamento senza rinvio del provvedimento impugnato;
l’avvocato NATALE POLIMENI in difesa di ROMEO SEBASTIANO, che insiste per l’accoglimento del ricorso;
l’avvocato ARMANDO VENETO in difesa di ROMEO SEBASTIANO, che si riporta ai motivi e ne chiede l’accoglimento.
RITENUTO IN FATTO
Il Tribunale del riesame di Reggio Calabria con ordinanza del 16 agosto 2019 ha
confermato l’ordinanza del giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Reggio Calabria che il 26 luglio 2019 applicava a Romeo Sebastiano e Romeo Francesco la misura degli arresti domiciliari per il reato di tentata corruzione.
Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Secondo l’accusa, Romeo Francesco, maresciallo della Guardia di Finanza in servizio di polizia giudiziaria presso la Procura Generale della Repubblica di Reggio Calabria, avrebbe chiesto a Romeo Sebastiano, nella sua qualità di consigliere regionale della Calabria, l’interessamento per la assunzione di un suo conoscente in una impresa privata esercente attività di trasporti in concessione, offrendo in cambio la sua disponibilità a fornire notizie su procedimenti pendenti presso la Procura della Repubblica di Reggio Calabria. Tale attività sarebbe stata mediata da Laganà Concetto che metteva i due Romeo, che non si conoscevano, in contatto.
Il Tribunale esponeva che il fatto emergeva in corso di intercettazioni effettuate anche tramite “captatore informatico” in un procedimento per reati di criminalità organizzata; tali intercettazioni erano ritenute utilizzabili dal Tribunale non ricorrendo il divieto di cui all’art. 270 cod. proc. pen., in quanto per la vicenda odierna si è proceduto nel contesto dello stesso procedimento (inteso quale stesso “fascicolo”).
In particolare, riteneva rilevante un colloquio, intercettato il 24 giugno 2015 nel palazzo della Regione Calabria, nell’ufficio di Romeo Sebastiano, tra quest’ultimo e Laganà Concetto, segretario del partito democratico di Melito Porto Salvo:
– Laganà riferiva di aver incontrato, in occasione di una riunione di ex compagni di classe, “Franco”, ovvero Romeo Francesco, maresciallo della Guardia di Finanza in servizio presso la Procura della Repubblica di Reggio Calabria. Questi gli aveva manifestato il desiderio di avere un contatto con l’assessore regionale Nino di Gaetano e gli aveva parlato della disponibilità a ricambiare il favore «se loro hanno bisogno della procura, io ho aiutato tanti senza che mi fanno favori». Laganà allora gli aveva suggerito «secondo me è meglio che parliamo con Sebi» (ovvero Sebastiano Romeo)
– Romeo Sebastiano diceva di essere pronto a incontrare il finanziere e Laganà gli specificava che Romeo Francesco aspirava alla assunzione di un suo conoscente da parte di una ditta concessionaria di autolinee in convenzione con la Regione.
– I due si mettevano d’accordo per un appuntamento di persona, considerando che il Romeo Francesco evitava l’uso del telefono.
La mancanza di intercettazioni ulteriori, per problemi tecnici, non consentiva di dimostrare l’effettivo incontro, che nella conversazione risultava ipotizzato per il 30 giugno.
Il Tribunale riteneva rilevanti anche alcune successive operazioni di ascolto, dalle quali risultava che Laganà organizzava una cena per il 17 luglio 2015 cui avrebbe partecipato anche Romeo Sebastiano. In riferimento a tale occasione,
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Corte di Cassazione –

Laganà chiedeva al figlio di contattare “Franco”, invitandolo per un caffè presso la propria abitazione. In tempi sostanzialmente corrispondenti, quando Romeo Sebastiano avvisava Laganà che lo avrebbe raggiunto presso la sua abitazione, quest’ultimo gli diceva «parli con quell’amico mio qua 10 minuti quanto volete e poi …. Ce ne andiamo a cena capito».
A tali conversazioni, elementi fondanti la decisione del gip, il Tribunale aggiungeva gli esiti degli interrogatori.
Romeo Francesco nel corso del proprio interrogatorio aveva riferito che:
– aveva partecipato ad una serata tra ex compagni di classe in cui egli aveva rappresentato la sua esigenza di un posto di lavoro per un familiare. Laganà gli aveva proposto di affrontare la questione con Romeo Sebastiano.
– Romeo Franco confermava l’incontro con Romeo Sebastiano con il quale parlò genericamente della possibilità di assunzione. Escludeva qualsiasi promessa di condotte specifiche nel contesto del proprio lavoro, avendo parlato al Laganà della propria generica disponibilità nei confronti di chiunque.
Nel suo interrogatorio Romeo Sebastiano ha detto di non ricordare la vicenda.
Il Tribunale giunge alla certezza che vi sia stato l’accordo corruttivo perché:
– Romeo Sebastiano temeva misure cautelari per il reato di voto di scambio. Aveva quindi concreto interesse ad ottenere un canale per ricevere notizie riservate sulle indagini in corso.
– «L’illiceità dell’Intesa è conclamata dalle estreme cautele adottate dai protagonisti, del tutto inspiegabili nell’ambito di un mero approccio clientelare dell’elettore al politico».
– Dall’interrogatorio di Romeo Francesco «si arguisce che effettivamente il confronto si svolse presso l’abitazione di Laganà e che Romeo Sebastiano assunse l’impegno di adoperarsi per verificare la concreta prospettiva di un’assunzione per il familiare segnalato a pubblico ufficiale»; e, poi, «un simile contegno non può che inserirsi del programma sinallagmatico che vedeva il militare impegnarsi a sua volta ad assecondare eventuali richieste del politico in relazione ad incombenze inerenti alle mansioni svolte presso la locale procura Repubblica».
– Secondo il Tribunale il coacervo di elementi fattuali consente di giungere alla conclusione del perfezionamento del patto.
– In particolare, elemento significativo è che «qualche giorno dopo il suo
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ingresso sullo scenario investigativo»
il captatore informatico installato dell’apparecchio telefonico di Romeo Sebastiano smetteva di funzionare collegando
Corte di Cassazione –

tale circostanza («verosimilmente tutt’altro che casuale») al fatto che, nel corso della perquisizione disposta quattro anni dopo, nel 2019, nell’ufficio del finanziere presso la procura Generale Reggio Calabria costui risultava nella disponibilità di articoli estratti da Internet sul tema del captatore informatico.
Per entrambi il Tribunale riteneva sussistere attuali esigenze cautelari.
Ricorso di Romeo Sebastiano.
Primo motivo: violazione di legge
– quanto alla ritenuta utilizzabilità del captatore informatico nel procedimento
in questione non trattandosi di un reato di criminalità organizzata.
– quanto ad essere stato fatto decorrere il termine delle operazioni dalla data di inizio di esecuzione, pur se di molto successiva a quello della disposizione del PM
di procedere.
Secondo motivo: violazione di legge e vizio di motivazione quanto alla ritenuta
sussistenza dei gravi indizi. Come ritenuto dal gip, non vi è prova che vi sia stato alcun accordo e quello che emerge è che Romeo Sebastiano accettava un incontro organizzato con una persona, di per sé rispettabile, da parte del suo amico e segretario del circolo Partito Democratico di Melito Porto Salvo, Laganà Concetto. Non risulta poi esservi stato alcun incontro né alcun favore, non essendo stato neanche rilevato alcun accesso nei server degli uffici di Procura da parte del finanziere, tale da dimostrare un suo indebito interessamento.
Peraltro, la consulenza tecnica di parte risulta anche escludere che nel corso delle intercettazioni sia stata utilizzata la parola “assolutamente” da parte di Romeo Sebastiano, dato sul quale è stata costruita la sua presunta disponibilità ad accettare una proposta corruttiva.
Con terzo motivo deduce la violazione di legge quanto alla sussistenza delle esigenze cautelari.
Ricorso di Romeo Francesco.
Primo motivo: violazione di legge quanto alla utilizzabilità delle intercettazioni. Non sussistono collegamenti tra i reati per i quali furono autorizzate le operazioni di intercettazione e quello contestato al ricorrente.
Con motivo aggiunto riferito a questo stesso tema, rileva che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno ritenuto che la identità del procedimento ai fini dell’ad 270 cod. proc. pen. richiede una effettiva relazione di connessione tra i reati, che nel caso di specie manca.
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Con secondo motivo deduce il vizio di motivazione in ordine alla sussistenza degli indizi di colpevolezza. Peraltro, non si è tenuto conto se non in parte delle sue dichiarazioni sede di interrogatorio, nel corso del quale aveva rappresentato che egli, essendo addetto alla Procura Generale, non aveva alcuna possibilità di accesso a notizie riservate per la fase delle indagini. I suoi accertamenti riguardavano le misure di prevenzione per procedimenti già definiti in primo grado.
Sono del tutto inconsistenti gli argomenti relativi all’improvvisa cessazione di funzionamento dell’utenza monitorata, giustificata dalla restituzione del telefono da parte del politico al partito dopo la sua elezione a consigliere regionale, e gli argomenti relativi alla documentazione sul captatore informatico, trattandosi di un articolo scientifico proveniente dal sito della corrente di magistratura “Unicost”.
Con terzo motivo deduce il vizio di motivazione in ordine alle esigenze cautelari.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi sono fondati.
Innanzitutto, sono fondati i motivi con i quali si afferma la inutilizzabilità delle
intercettazioni. Da un lato, l’affermazione secondo la quale il “procedimento” di cui all’art. 270 cod. proc. pen. va riferito alla identità del “fascicolo” è di per sé erronea, perché la norma citata fa riferimento ad un concetto sostanziale di procedimento; dall’altro, lo stesso Tribunale riconosce la assenza di connessione, anche solo probatoria, con i fatti per i quali le stesse furono autorizzate. Ne deriva, in linea con il recente intervento chiarificatore delle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U., sent. n. 51 del 28.11.2019 – dep. 2020, Rv. 277395), peraltro adesivo alla giurisprudenza maggioritaria, la sussistenza della dedotta inutilizzabilità.
Una tale decisione comporta di norma un annullamento con rinvio perché il giudice di merito effettui di una “prova di resistenza”, quanto alla possibilità di dimostrare la ipotesi di accusa sulla scorta degli elementi ulteriori.
Nel caso di specie, però, vanno, comunque, valutati anche gli altri motivi riferiti alla sussistenza di indizi del reato contestato in quanto, come dopo si chiarisce, è palese la assoluta inconsistenza delle ipotesi di accusa, non solo per la scarsa portata degli elementi ulteriori, rappresentati soltanto dalle dichiarazioni rese da Romeo Francesco in un proprio interrogatorio, ma per la irrilevanza anche degli stessi elementi desunti dalle prove inutilizzabili e che, però, ben si possono considerare in favore dei ricorrenti.
Innanzitutto, pur se il tema non è affrontato dalle difese, la qualificazione giuridica del fatto quale tentativo sembra derivare maggiormente dalla genericità
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della tesi di accusa e dalla incertezza sul fatto, risolta con l’apparente scorciatoia del
reato tentato.
Dalla generica descrizione del fatto (e con la congettura su quale potesse
essere l’ambito in cui Romeo Sebastiano intendeva ottenere favori dal p.u.) risulta tuttalpiù una mera intenzione di commettere il reato o una desistenza volontaria.
L’ordinanza non chiarisce perché il reato sarebbe restato allo stadio di tentativo. Si deve allora tenere conto della formulazione della norma incriminatrice, che sanziona quale reato consumato la condotta di “promessa” di retribuzione per un atto ancora da compiere e, comunque, sanziona in modo autonomo l’istigazione alla corruzione/l’istigazione a farsi corrompere. Quindi, considerate le norme in tema di reato di corruzione, a fronte dell’unico dato comprovato, ovvero l’incontro tra i due soggetti, una volta che lo stesso Tribunale esclude la perfezione del reato (con la promessa o l’istigazione), non si poteva affermare con certezza altro che l’esservi stata o una generica proposta che non aveva avuto seguito o la impossibilità di una utile prestazione da parte di uno dei Romeo.
Vi è però anche una ulteriore palese contraddizione, là dove il Tribunale afferma, o lascia intuire, l’ipotesi che il Romeo Sebastiano sarebbe stato avvertito dal p.u. delle intercettazioni in corso: a fronte di una tale ipotesi, si dovrebbe discutere di una corruzione consumata.
In realtà, dalla lettura dei fatti accertati dal Tribunale, in base ad intercettazioni inutilizzabili di cui però è legittimo fare uso “a favore”, si comprende che non vi è alcuna evidenza di una effettiva “offerta”:
il Tribunale riporta che il mediatore Laganà parlava al Romeo Sebastiano di una generica offerta di disponibilità da parte del finanziere a favorire il politico, ma nulla si dice di concreto; e, pur essendo il p.u. un addetto alla Procura Generale della Repubblica, non si dice cosa avrebbe “offerto in vendita”, considerato che non era ruolo che lo mettesse in grado di conoscere intercettazioni riservate, se del caso gestite dalla Procura presso il Tribunale.
Peraltro, nonostante i quattro anni di tempo a disposizione degli inquirenti, decorrenti dalle intercettazioni, non si dà atto di alcuna indagine mirata a individuare eventuali fughe di notizie, accessi abusivi etc., tanto che il Tribunale del Riesame, per trovare prove a carico, fa ricorso essenzialmente all’interrogatorio di garanzia di Romeo Francesco – nonostante sia di assoluta negazione del fatto – ovvero alla affermazione di un collegamento tra la cessazione di funzionamento del “trojan” nel telefono del politico e la presenza nell’ufficio di Romeo Francesco, dopo quattro anni, di un articolo scientifico sulla utilizzabilità del dato tipo di
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