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Amianto killer. È il datore a risarcire se «è più probabile che non» che il cancro è colpa dell’asbesto anche se il dipendente è fumatore

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Arriva dalla Cassazione un’importante decisione in materia di danni amianto-dipendenti
che dice anche la parola fine, in senso positivo, alla storia giudiziaria introdotta
dai prossimi congiunti di uno dei tanti lavoratori italiani morti di cancro ai polmoni
a causa dell’esposizione da amianto. Per la Suprema Corte, è corretto che sia
il datore di lavoro a risarcire gli eredi del lavoratore deceduto per una neoplasia
polmonare se risulta «più probabile che non» che sia stata l’esposizione del
dipendente all’amianto e ad altri agenti chimici in azienda a causare l’insorgenza
della malattia: per i giudici di legittimità tale regola di giudizio dev’essere
sempre adottata nei casi in cui le leggi scientifiche non offrono certezze assolute
della derivazione causale. La responsabilità dell’azienda sussiste anche se la
vittima era un fumatore: più che la probabilità quantitativa (o statistica) vale
quella logica e decisiva si rivela la circostanza secondo cui per anni nello stabilimento
le polveri di asbesto non sono state rimosse con aspiratori mentre agli operai erano
fornite in dotazione soltanto mascherine di carta. Il lavoratore aveva lavorato ininterrottamente
all’interno dello stabilimento dal 1967 al 1994 quando si era ammalato e poi era
deceduto. Gli eredi allora avevano avviato una causa contro l’azienda ed il Tribunale
del lavoro di Livorno aveva riconosciuto il loro diritto al risarcimento condannando
l’azienda per euro 247.570,78 complessivi a titolo di iure hereditatis ed euro
835.551,36 complessivi iure proprio, decisione che veniva confermata anche dalla
Corte d’appello di Firenze. Una delle società che ha gestito lo stabilimento insisteva
tuttavia nel ricorre in cassazione che ne rigettava le doglianze con la sentenza
in commento 19270/17, pubblicata il 2 agosto. Per i giudici della sezione lavoro
è ineccepibile la sentenza della Corte di merito che, come detto ha confermato ai
congiunti sia il danno iure hereditario sia quello iure proprio: il primo è liquidato
come danno invalidità temporanea, parziale e poi totale, e viene personalizzato
rispetto agli aspetti biologici e relazionali, oltre che alla consapevolezza dell’esito
infausto; il secondo tiene conto della morte precoce e risulta inferiore ai massimi
delle tabelle milanesi. Ma la decisione risulta particolarmente significativa nella
parte in cui analizza i criteri per la determinazione della correlazione tra patologia
ed esposizione, facendo riferimento alle regole della causalità in materia: il criterio
della preponderanza dell’evidenza, scrivono infatti gli “ermellini”, non può
infatti essere ancorato solo alla frequenza statistica di classi di eventi, che potrebbe
mancare o essere inconferente. Ma ne va verificata la fondatezza nel caso concreto
rispetto agli elementi di conferma e a quelli che escludono le alternative: nella
specie operano all’interno nello stabilimento due agenti patogeni perché ci sono
gli idrocarburi policiclici aromatici accanto all’asbesto. E, peraltro, erano state
omesse le cautele previste dall’articolo 2087 e dal DPR 330/1956 che consistevano
nella mancata aspirazione e rimozione delle polveri nocive e nel fatto che ai lavoratori
erano state fornite mascherine di carta solo introdotte solo alla fine degli anni
Settanta.