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A proposito di rimessione del processo Ilva

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Lo chiediamo al dr Antonio Giangrande, sociologo storico che sul tema ha
scritto : “Malagiustiziopoli. Ingiustizia contro la collettività”, ovvero
“Tutto su Taranto, quello che non si osa dire”.

«E’ da venti anni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a
livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi,
raccolti in una collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che
siamo”, letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei
media nazionali. Pennivendoli venduti all’economia ed alla politica. Book ed
E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com, CreateSpace.com.

Il processo all’Ilva resterà a Taranto e non sarà trasferito a Potenza: lo
ha deciso la Corte di Cassazione la sera del 7 ottobre 2014. A presentare la
richiesta di rimessione ad altra sede, per legittimo sospetto, erano stati i
difensori di alcuni dei 52 imputati per disastro ambientale. I legali di
Riva Fire, Ilva spa e di 13 imputati (tra i quali gli avvocati Franco Coppi,
Francesco Mucciarelli, Adriano Raffaelli, Nerio Diodà, Stefano Goldstein e
Marco De Luca) avevano depositato l’istanza il 5 giugno 2014. Il rigetto è
avvenuto il 7 ottobre 2014. In poco meno di 200 pagine, i legali avevano
cercato di far perno sull’articolo 45 del codice di procedura penale.
Ovvero, come recita l’articolo, “la sicurezza o l’incolumità pubblica”, o
ancora “la libertà di determinazione delle persone che partecipano al
processo sono pregiudicate da gravi situazioni locali” che possono turbare
lo svolgimento del processo stesso e non sono neppure eliminabili. Ovvero
per “legittimo sospetto”. Dopo l’annuncio i colpevolisti hanno festeggiato,
pensando di trovare a Taranto un humus giudiziario favorevole per le loro
aspettative.

Ma quale è la notizia? Il rigetto scontato dell’istanza? Non ne era convinto
del buon esito il buon Franco Coppi, che già ci aveva provato per Sabrina
Misseri per il processo sul delitto di Sarah Scazzi. Ma ciò non gli ha
impedito di presentare l’istanza insieme agli altri legali. Tarantini non lo
sono e per questo hanno avuto il coraggio di presentare l’istanza di
rimessione per legittimo sospetto che i magistrati del foro di Taranto non
potessero essere sereni per il clima generato dalle campagne di stampa che
hanno sobillato l’opinione pubblica. Quella stampa che prima era prona alla
grande industria e come escort foraggiata.

In attesa delle ovvie motivazioni degli ermellini, i giornalisti, degni di
tale titolo facciano una ricerca approfondita dei precedenti ricorsi di
Rimessione fatti in tutta Italia. Se non vi è capacità o volontà possono
sempre attingere ai miei saggi di inchiesta: “Malagiustiziopoli. Ingiustizia
contro la collettività”, ovvero “Tutto su Taranto, quello che non si osa
dire”. Il tema è stato trattato e ci si accorgerà che la legge Cirami mai è
stata applicata. Perché la legge si applica per i poveri cristi e si
interpreta per i poteri forti, specie se corporativi. Una norma disapplicata
in abuso di potere ed a spregio dei diritti di difesa.

“L’ipotesi della rimessione, il trasferimento, cioè, del processo ad altra
sede giudiziaria, deroga, infatti, alle regole ordinarie di competenza e
allo stesso principio del giudice naturale (art. 25 della Costituzione) –
spiega Edmondo Bruti Liberati, già Presidente dell’Associazione nazionale
magistrati. – E pertanto già la Corte di Cassazione ha costantemente
affermato che si tratta di un istituto che trova applicazione in casi del
tutto eccezionali e che le norme sulla rimessione devono essere interpretate
restrittivamente. Nella rinnovata attenzione sull’istituto della rimessione,
determinata dalla discussione della proposte di modifica (2002, legge
Cirami), numerosi commenti – comparsi sulla stampa – rischiano di aver
indotto nell’opinione pubblica l’impressione che l’istituto del
trasferimento dei processi trovi applicazione ampia e che dunque la
magistratura italiana ricorrentemente non sia in grado di operare con
serenità di giudizio. Vi fu una sola difficile stagione dei primi decenni
della nostra Repubblica, in cui numerosi processi per fatti di mafia furono
trasferiti dalle sedi giudiziarie siciliane in altre regioni: era il segno
umiliante della fragilità delle istituzioni, di uno Stato incapace di
assicurare serenità allo svolgimento del processo e di garantire protezione
ai giudici popolari di fronte alle minacce. Era una stagione in cui i
processi, pur trasferiti ad altra sede, si concludevano pressoché
ineluttabilmente con le assoluzioni per insufficienza di prove. Superata
questa fase, e pur sotto la vigenza della norma del Codice di procedura
penale del 1930 – che prevedeva la formula del «legittimo sospetto» –, in un
periodo di diversi decenni i casi di rimessione sono stati pochissimi:
intendo dire poche unità. I casi più noti di accoglimento, di norma ad
iniziativa degli uffici del Pm, determinarono polemiche e reazioni. (Ad
esempio, i fatti di Genova del luglio 1960, la strage del Vajont, la strage
di Piazza Fontana, l’appello sul ‘caso Zanzara’, il caso delle schedature
alla Fiat). Avanzava tra i giuristi la tesi che fosse necessaria una più
puntuale e rigorosa indicazione dei motivi suscettibili di determinare il
trasferimento. Il Parlamento, dopo le polemiche per il trasferimento del
processo per la strage di Piazza Fontana da Milano a Catanzaro, interveniva
per dettare dei criteri stringenti per la designazione del nuovo giudice
(legge 773/1972 e successivamente legge 879/1980, che introdusse il criterio
automatico tuttora vigente). La lettura delle riviste giuridiche, dei saggi
in materia e dei codici commentati ci presenta una serie lunghissima di
casi, in cui si fa riferimento alle più disparate situazioni di fatto per
concludere che la ipotesi di rimessione è stata esclusa dalla Corte di
cassazione. Pochissimi sono dunque fino al 1989 stati i casi di
accoglimento: l’ordine di grandezza è di una dozzina in tutto. Il dato che
si può fornire con precisione – ed è estremamente significativo – riguarda
il periodo dopo il 1989, con il nuovo Codice di procedura penale: le istanze
di rimessione accolte sono state solo due.»

Di queste due istanze accolte, però, non ve ne si trova traccia per farne un
attendibile riferimento.

Il collegio della prima sezione penale è stato presieduto da Umberto
Giordano, consigliere relatore Margherita Cassano che entro trenta giorni,
circa, depositerà i motivi del «no» al trasloco del processo Ilva. Senza
successo, quindi, i difensori degli imputati – tra i quali il professor
Franco Coppi – hanno sostenuto che i giudici tarantini non sarebbero sereni
nell’affrontare una vicenda che coinvolge tanta popolazione della città
pugliese dove sorgono gli insediamenti dell’acciaieria che riversa le sue
polveri sui quartieri vicino agli stabilimenti.

Via libera al Gup Vilma Gilli, allora. Alla sbarra compaiono non solo i
vertici Ilva, accusati di aver creato un’associazione per delinquere
finalizzata al disastro ambientale della città, ma anche politici,
amministratori, funzionari regionali e del ministero dell’Ambiente: dal
presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, all’ex presidente della
Provincia di Taranto, Gianni Florido, al sindaco della città, Ippazio
Stefano, per arrivare ad avvocati (c’è anche un legale Ilva), un poliziotto,
un carabiniere e un sacerdote.

Per i manettari: Tutti dentro!!

L’accusa è portata dalla Procura della Repubblica di Taranto, guidata da
Franco Sebastio, al quale sono affiancati in questa inchiesta il procuratore
aggiunto, Pietro Argentino, e quattro sostituti procuratori.

Da ricordare che mina la credibilità del pool d’accusa l’indagine della
procura di Potenza a carico di Pietro Argentino per falsa testimonianza,
come tutti sanno, per una deposizione resa a favore del’ex Pm di Taranto
Matteo di Giorgio, condannato a 15 anni di carcere dal Tribunale di Potenza.

Come ne sono tutti a conoscenza del conflitto interpersonale tra Sebastio ed
Argentino. Nel processo sulla malasanità di Bari compaiono intercettazioni
telefoniche fra il dott. Sebastio e il consigliere regionale dell’area del
P.D. ostile al sindaco di Bari Michele Emiliano, Michele Mazzarano, nel
corso delle quali il dott. Sebastio esprimeva sfavore per la nomina a
Procuratore Aggiunto del dott. Pietro Argentino.

Quindi un iter giudiziario travagliato che, data la mia esperienza, mi
permette, così come ho fatto per il processo Sarah Scazzi, di prevederne il
finale: condanna per tutti, salvo prescrizione».