“Rosso”, ecco il diciannovesimo capitolo del libro di Mario Aloe
redazione | Il 12, Mag 2014
Ogni lunedì pubblicheremo un capitolo dell’avvincente romanzo sulla nave dei veleni dello scrittore di Amantea. Ecco il diciottesimo
“Rosso”, ecco il diciannovesimo capitolo del libro di Mario Aloe
Ogni lunedì pubblicheremo un capitolo dell’avvincente romanzo sulla nave dei veleni dello scrittore di Amantea. Ecco il diciannovesimo
ROMA: LA PARTITA SI CHIUDE
Lagherio era stato fermato a Malpensa, mentre cercava di imbarcarsi per il sud America e tradotto nel carcere di Reggio Calabria.
Lo avevano acchiappato, appena in tempo, prima che riuscisse a scomparire rendendosi irreperibile, approfittando di una soffiata.
All’onorevole Contatto era stata ritirata la delega governativa e il Parlamento aveva concesso, immediatamente, l’autorizzazione all’arresto: anche lui aveva raggiunto Reggio.
Lo scandalo agitava politica e affari e sembrava che dovesse tracimare investendo tutti. Non si riusciva a capire più la dimensione del problema e, nella confusione, si parlava di inquinamento di intere zone del meridione.
Gli ultimi giorni di luglio a Roma erano stati roventi e un sole sfavillante accompagnava le giornate rendendo le attività all’aperto difficili e stancanti.
L’asfalto, nelle ore più calde, arrivava, quasi, a liquefarsi e le scarpe affondavano nella strada, trasmettendoti un’orrenda sensazione di appiccicaticcio.
La città non smetteva di vivere: le persone andavano al lavoro e di sera godevano del centro, di Fontana di Trevi, di Piazza di Spagna, di Trastevere. Frotte di giovani assaltavano le pizzerie, mentre i locali bene erano ancora affollati.
Parte della vita notturna romana si era spostata sul litorale, con la sua ostentazione di lusso e ricchezza e il bisogno, disperato, di consumare beni e persone in un vortice, continuo e senza senso, che ti lasciava vuoto e ti induceva a ricominciare.
In via Lanzara regnava il silenzio: corridoi deserti, postazioni di lavoro semivuote e nulla della voglia di vivere di Roma circolava in quelle stanze. Il palazzo appariva un santuario che chiamava alla riflessione, alla moderazione dei suoni, anche della tonalità della voce.
L’uomo non avvertiva l’accerchiamento, né tanto meno si sentiva minacciato da quanto accedeva fuori e le ondate di sdegno popolare, suscitate dallo scandalo, non incrinavano la sua calma: lui era imperturbabile e attento alle implicazioni degli avvenimenti.
La temperatura, a ventitré gradi centigradi, prodotta dal condizionatore, rendeva l’ufficio godibile, mentre l’arredamento sapiente rilassava la mente.
La stampa aveva scritto, come al solito, di settori deviati dello Stato, di servitori infedeli. Si ripeteva un vecchio copione, quello delle trame oscure, di una mente dietro gli avvenimenti.
Non lo disturbava questa cantilena giornalistica, ma il dubbio che qualcosa gli fosse sfuggito: quelli della procura di Reggio erano riusciti a rendersi impermeabili a qualsiasi infiltrazione. Erano stati bravi, doveva riconoscerlo.
Uno spreco di intelligenza!
Quella donna aveva messo al servizio del popolo le sue rare capacità, negandole al governo reale della nazione. Per un attimo si soffermò ad immaginarla al suo fianco, come sua erede, dopo un lungo tirocinio.
L’idea del bene, invece, li rendeva pericolosi se non controllati e il loro romanticismo poteva causare guai a tutti: lui era lì per porvi rimedio.
L’onorevole era finito in galera, ma era solo una pedina, sostituibile facilmente.
I politici erano troppo affamati di voti e denari, inaffidabili e incapaci di ricoprire incarichi importanti: infatti si era sempre rifiutato di concedere la sua amicizia all’uomo.
La richiesta di rogatoria internazionale – una copia era sulla sua scrivania – aveva individuato la banca in Svizzera, ma aveva tempo a disposizione per far sparire i soldi, distruggere le carte, non lasciare tracce delle transazioni. Dell’istituto di Lugano sarebbe restato solo un guscio vuoto.
Esisteva un unico vero problema da risolvere prima che la donna riuscisse ad arrivare al generale. Il solo punto di contatto, esistente tra la sua persona e la trama, era rimasto quel Fringuello.
Non era stato uno sbaglio averlo inviato a Lugano a parlare con Lagherio e gli altri.
I romanzi gialli erano una cosa, con l’uomo nero che spuntava nelle ultime righe e la realtà un’altra. Nella vita occorreva che le azioni fossero prodotte dagli uomini e Fringuello era il suo attore sulla scena dei traffici di rifiuti.
L’avvocato, se avesse parlato, avrebbe potuto indicare soltanto il generale e il maestro, ma Fringuello avrebbe retto l’urto del carcere? Sarebbe riuscito a mantenere il silenzio?
A volte il nome o il cognome hanno in sé le caratteristiche delle persone che li portano e il generale gli era apparso sempre debole di testa e forte di lingua.
Cosa fare?
Sperare che la giudice Bianchi o quel ficcanaso di giornalista divenissero scemi all’improvviso e lo lasciassero in pace.
No, non poteva essere così sprovveduto: lo avrebbero preso e poi?
C’era una sola soluzione, una soltanto.
Lo trovarono, nello studio del suo appartamento, morto con la pistola, ancora, stretta nella mano.
Il generale si era sparato un colpo alla tempia destra: un suicidio, accompagnato da una lettera in cui confessava il coinvolgimento nella trama dei veleni denunciando le responsabilità dell’avvocato Lagherio e la presenza degli uomini della ‘ndrangheta.
La denuncia era generica non indicando fatti, circostanze e nomi oltre quello dell’avvocato e di alcuni calabresi.
Il decesso di Fringuello aveva suscitato ampio scalpore aumentando il trambusto e l’agitazione della politica nazionale: i fantasmi del passato con le “logge segrete” si riaffacciarono nel dibattito e nelle polemiche.
Si dilettavano con le trame e gli intrighi, danzando un ballo passato di moda: non era un’organizzazione marginale e deviata quella di cui lui era a capo, ma il cuore vero del potere, le sue mani stringevano lo scettro del comando.
Lui era lì, mentre la televisione mandava l’immagine del suicida. Non era soddisfatto dell’accaduto, non tutto era andato
alla perfezione: i sicari erano stati intercettati da qualcuno e fatti trovare morti, anche essi, con un colpo di pistola in testa.
Chi aveva compiuto l’opera non aveva intenzione di accostare i due fatti. I cadaveri erano stati trasportati fuori Roma e lasciati alle porte di Mentana, lontano decine di chilometri dalla casa del generale.
C’era qualcuno che sapeva e voleva avvertirlo, ma non aveva intenzione di colpirlo, di associarlo all’accaduto: dovevano essere dei professionisti, padroni del territorio e in grado di utilizzare coperture diffuse. Erano riusciti a compiere l’opera senza lasciare tracce.
La scena non gli apparteneva del tutto, almeno non era il solo protagonista del gioco e questo lo costringeva ad accelerare la pulizia del campo liberandolo dalla presenza degli irregolari.
Con gli altri attori avrebbe raggiunto un’intesa: ne era sicuro si sarebbero fatti vivi, avanzando le loro richieste e lui non era più in grado di dire no.
L’accordo era già scritto nel messaggio lasciato con l’assassinio dei suoi uomini.
Avrebbe dato loro quello che chiedevano: era sicuro non avrebbero preteso tutto.
In redazione era arrivato un plico per Zafarone. L’estate volgeva al termine e la città stava riprendendo il suo tram tram abituale.
La busta giungeva da Roma ed era stata spedita all’inizio del mese: le poste confermavano di esser una rovina con la loro lentezza esasperante.
In venti giorni si poteva ricevere qualsiasi cosa proveniente dall’altra capo del mondo – pensò subito alla Nuova Zelanda – e da Roma, invece, non veniva recapitata neppure una busta.
Aprì il plico: una lettera ed una serie di documenti: fatture, trasferimenti di denaro, bolle di accompagnamento.
Cercò immediatamente la firma sulla lettera: gen. Filiberto Fringuello, non era il nome del militare suicida? Una pausa
mentale per recuperare la memoria e fare il punto: era proprio lui e gli mandava una lettera zeppa di fotocopie.
“Egregio dottore,
mi rivolgo a lei perché non so a chi indirizzare questa mia confessione.
Sono vicino alla fine della mia vita, mi raggiungeranno per tapparmi la bocca e non permettere che io riveli tutta la porcheria che io stesso ho collaborato a creare.
Non si fidano più.
Troverà le prove del traffico di rifiuti nocivi e radioattivi verso la Somalia, dell’acquisto di armi e del loro trasferimento ai signori della guerra somala, dei guadagni dell’avvocato Lagherio, dei prossimi carichi che arriveranno nel Puntlad con scorie radioattive.
Non mi pento di aver agito così: una soluzione ai rifiuti nocivi che noi produciamo dovevamo trovarla ed era meglio andarli a portare da altri.
Ho scelto lei come destinatario di questa mia denuncia perché nutro la speranza che altri pagheranno e che la mia morte…”.
Il testo continuava con dettagli delle operazioni effettuate, il nome dell’istituto di credito di Lugano, il luogo di arrivo dei rifiuti.
Entrò, come un uragano, nella stanza del redattore capo sventolando i fogli: «Ho in mano una bomba: Fringuello, il generale suicidato mi ha scritto: guarda c’è di tutto e di più, oltre ogni umana immaginazione».
Gli porse i documenti ed attese che l’altro li scorresse e si rendesse conto del loro valore; il fiume di prove che contenevano li portava diritti in Somalia ed inchiodava definitivamente Lagherio.
«Totò, dobbiamo riflettere, parlare con il direttore e i nostri legali: non possiamo più trattare l’affare solo come una campagna di stampa e trattenere per noi queste cose».
«Va bene fai quello che ritieni giusto ed opportuno, ma sia chiaro voglio andare in Somalia e seguire la pista».