Mai una “Gioia”: il futuro non si aspetta, si progetta Analisi di Antonio Pataffio sulla vita politica della città di Gioia Tauro
C’è questo modo di dire molto in voga: “Mai una gioia!”. Denota pessimismo nelle esperienze fatte, o anche sperimentare solo ciò che è negativo, l’assenza di gioia, appunto. Che sia vero o meno ipotizzo una certa confusione tra gioia e felicità, in chi afferma ciò. La felicità “costa”, la gioia è “gratis”; la felicità “accade”, la gioia “si pratica”; la felicità dipende dalla relazione con Altro, altra persona o altra situazione, la gioia è autonoma: è un atteggiamento, una pratica, una scelta.
Chiariti i termini, in questa accezione appena delineata, potremmo distinguere ancora tra gioia come aggettivo e gioia come sostantivo, la “nostra” Gioia, Gioia Tauro. Che ancora una volta ha scelto di non scegliere, di non proseguire nella scelta fatta, e dimettere il sindaco. Presto, quindi, sarà chiamata a scegliere il sindaco nuovo, ma nel farlo, prima che la ridda dei nomi e degli “amici” monopolizzi il dibattito politico (di fatto impedendolo: più si parla di nomi, specie di “amici”, meno si parlerà, e si farà, Politica) sarebbe opportuno che i molti, tanti, cittadini illustri e capaci del paese mettano in atto la loro intelligenza, uscendo dal guscio nel quale sono rinchiusi.
Altrimenti, che sia aggettivo o sostantivo, si potrà continuare a dire “mai una Gioia”, crogiolandosi in una triste verità. La verità non è mai data, dipende dalla sua ricerca. Così come non è dato il futuro, che dipende dalla capacità di progettarlo e perseguire il progetto ipotizzato. A Gioia, alla Piana, e all’intera Regione, da tempo fa difetto la capacità di progettare e impegnarsi a costruire un progetto, a immaginare un futuro e raggiungerlo e farlo giungere. Ne è acclarata e inconfutabile dimostrazione la pessima gestione dei Fondi Comunitari: se nella programmazione 2007-2013 si è dovuti rincorrere, in un disperato rush finale, la possibilità di non perderli grazie anche alla proroga comunitaria concessa, nella programmazione 2014-2020 siamo già (di nuovo..) in ritardo.
Come emerge dai dati dell’Osservatorio sui fondi comunitari de Il Sole-24 ore, la Lombardia che ha un accesso ai fondi limitato ed è la regione più produttiva d’Italia, finora ha usato quasi tutti i fondi messi a disposizione, attraverso un’attenta e preventiva programmazione ed emissione dei bandi. Mentre la Calabria, che ha accesso a tutti i fondi comunitari, è ferma a pochi e sparuti bandi emessi. Siamo al paradosso per cui la prima regione di Italia per produttività, e che quindi non avrebbe l’impellenza di usare i fondi comunitari, lavora alacremente attraverso i fondi comunitari, mentre la Calabria, ultima in quasi tutte le statistiche, che ha un bisogno atavico di reperire e usare bene le risorse, è ultima nel loro utilizzo perché“distratta” da altro (cosa sia questo altro, ben più urgente, non è dato saperlo).
Di seguito si proverà a tracciare qualche linea per provare a rimettere in moto la capacità progettuale, invitando i cittadini di buona volontà e cognizione a tessere un dialogo progettuale (ciò sarebbe già una vittoria di e per tutti), e magari invitando la futura Amministrazione a far propri i disegni emersi.
Innanzitutto la capacità di dialogo e la sua pratica: sembra ovvio ma (“Nulla è più pericoloso dell’ovvio” secondo il filosofo Wittegenstein) il dialogo, come vuole la sua stessa etimologia, implica due parti in causa (dia-logein: discorso condiviso tra due). Il discorso condiviso deve vertere su argomenti, cioè fondati sul senso logico, quindi sono esclusi posizione “emotive” (“questa è la verità”/ “non cambierà mai niente”/ “è sempre stato così”, ecc..): le posizioni emotive, infatti, fotografano uno stato dei sensi interni, emozioni e sentimenti, esclusivamente soggettive che l’altro non può verificare né conoscere, ma solo accettare o rifiutare. Da troppo tempo siamo immersi in queste posizioni emotive che impediscono il dialogo, e senza dialogo, cioè confronto di argomenti, non si ha e non si dà Politica.
Secondariamente il dialogo non è appannaggio esclusivo, non dovrebbe essere, dei diretti interessati, cioè i candidati amministratori, ma pratica continua tra e nella comunità: per troppo tempo si è rinunciato a dibattere pubblicamente su cosa e come si vuol fare, rinunciando quindi ad essere e a farsi comunità. Una comunità che voglia essere tale si impegna nel rispetto dei valori condivisi e dei bisogni comuni individuati.
E’ il caso di esplicitare i valori e i bisogni che la comunità ritiene di possedere, rendendo visibile un’ Etica pubblica, piuttosto che continuare nella stasi delle posizioni emotive e dell’ Epica del passato trascorso (trascorso forse più nella fantasia che nella realtà..). Infine occorre concentrare le energie per giungere a poche e chiare e condivise conclusioni e poi muovere dalle conclusioni alla loro messa in pratica e alla loro continua verifica. Da qui, chiarita la metodologia che ci informa, proviamo a declinare quanto detto in ipotesi progettuali.
Sia chiaro subito e senza fraintendimento alcuno: non si vuol far carico alle esanimi casse comunali di alcuna spesa aggiuntiva, che non sarebbe neanche possibile immaginare. Ma quanto ipotizzato di seguito potrebbe trovare attuazione attraverso un’ottima allocazione delle risorse previste e già possibili: fondi comunitari (in primis il fondo per l’integrazione e l’inclusione sociale), fondi nazionali per l’Area Metropolitana, partnership pubblico-privato.
La recente novazione legislativa che ha completato la legge regionale sulle politiche sociali (L.R. 23/03) non pone solamente in capo ai comuni gli obblighi di legge (Piani di Zona, ricognizione dei servizi sociali offerti, ecc.) ma è, può essere, uno straordinario strumento di rilancio del territorio.
La crescente complessità e sofferenza sociale comporta un crescente numero di problemi e maggiori situazioni di disagio. A fronte di ciò i territori, i loro amministratori e le comunità sono limitati sia in mezzi che in risorse.
L’idea che qui si propone è di un maggior sviluppo autonomo dei servizi sociali privati, il cosiddetto “terzo settore” poco o per nulla presente nel nostro territorio, e del loro coordinamento con i soggetti pubblici e privati. In tale ottica, si potrebbe ipotizzare l’impostazione dei Piani di Zona volti a costruire un “Distretto dei Servizi al Ben Vivere”, un vero e proprio distretto del Ben-Essere. Per far ciò, in modo sintetico e schematico, occorre una ricognizione dei soggetti presenti, l’ascolto delle loro idee e dei loro progetti e un accordo di collaborazione.
Con ciò si presuppone un nuovo patto sociale, tra soggetti individuali e collettivi, e tra soggetti pubblici e privati. Data tale partnership si potrebbero suggerire, tra gli obiettivi possibili, la rilevazione, prevenzione e riduzione dei disagi; la crescita dei servizi sociali e culturali offerti, pubblici e privati, e la loro massima condivisione comunicativa. L’ipotesi non è quella di servizi sociali e culturali che si limitano a “riparare”, ma che siano tesi alla prevenzione e alla promozione con lo scopo di innalzare il livello della qualità di vita del nostro territorio.
La seconda traccia progettuale che qui si propone è quella della creazione di un incubatore per la ricerca, la formazione e la creazione di start-up. Un luogo dove poter avere accesso alle informazioni legislative, alle opportunità dei bandi, alle ricerche per fare e conoscere il territorio in modo ottimale, alla formazione all’imprenditorialità e allo scambio tra le realtà imprenditoriali presenti al fine di costruire network efficaci, e infine rendere possibile la creazione di start-up, magari in forma associata o cooperativistica.
Si è dovuto qui tracciare brevemente alcune delle possibili ipotesi progettuali che si possono avanzare, limitando la loro articolazione che ha sicuramente bisogno di maggior approfondimento, consapevoli che non sono questi due schizzi progettuali a risolvere gli annosi problemi del nostro territorio. Ma non era questo, non qui almeno, l’intento: l’intento è quello di avviare un dialogo, quanto più largo possibile, fondato su ragioni, argomenti e progetti.
E impedire, ab origine, che la prossima tornata elettorale scivoli verso l’inutile schieramento tra tifoserie contrapposte dalla simpatia/antipatia verso questo o quell’altro candidato. Questo è possibile, sarà possibile, se e solo il dialogo vivrà nella partecipazione di tutta la comunità. Una comunità, quella gioiese, quella della piana, quella della regione, che chiami se stessa a sé, senza aspettare soluzioni salvifiche dall’esterno. Una comunità che ritorna al dialogo partecipe, vivo, vero, reale: per strada e in piazza, fondato su rispetto e progetto (e non su simpatie e appartenenze di comodo), teso a immaginare soluzioni possibili e non a lamentarsi dei problemi noti. Una comunità dialogica, progettuale, creatrice e solutrice: perché la gioia non si improvvisa, si fa.
E anche a Gioia devono finire i tempi dell’improvvisazione, del lamento, della chiusura nelle proprie condanne e critiche consolatorie e nelle proprie stanze, che non salvano nulla se non chi le fa e che a nulla servono per cambiare la situazione di chi denuncia, chiamandosi fuori dal dialogo, dall’impegno e dalla partecipazione alla vita del territorio. E provare a essere baricentro di opportunità, progettisti e creatori del futuro. L’alternativa è aspettare, in silenzio, qualcuno che ci salvi, ci aiuti, ci renda felici: aspettate, se ritenete che questa sia l’unica via. Ma tenetevi, a ragione, la consolazione del “mai una gioia!”. No, mai. Mai più questa Gioia.
Antonio Pataffio, assistente sociale specialista, counselor filosofico e sociologo, si occupa di comunicazione trasformativa, ricerca esistenziale e sociale e progettazione sociale e aziendale con i fondi comunitari. Ha lavorato in Parlamento e nell’associazionismo, nonché come consulente di imprese private e singoli professionisti