Liberi di scegliere? 'Ndrangheta tra fiction, realtà e pratiche di liberazione nella riflessione di don Leonardo Manuli
Un nuovo film sul prodotto di “casa nostra” calabrese, la ‘ndrangheta, «Liberi di scegliere» trasmesso in prima serata su rai uno, girato tra la Puglia, la Calabria e la Sicilia. La trama narra una storia vera e dei nostri giorni, la lotta del magistrato calabrese Di Bella nella provincia reggina dove il tribunale per i minori interviene con azioni preventive per “strappare” dalle famiglie di ‘ndrangheta i ragazzi a rischio radicalizzazione, educati alla violenza e introdotti in azioni criminose. Sono diversi i giovani allontanati e trasferiti in altre regioni da quando opera il magistrato Di Bella, esempio seguito in altre città, coadiuvato anche dalla collaborazione di psicologi per aiutarli a scoprire che fuori esiste un mondo diverso. Una lotta che non è stata facile e che ha dovuto affrontare ostacoli anche all’interno del “sistema giustizia”.
“È un’azione di forza molto discutibile nelle famiglie di ‘ndrangheta, sin da bambini essi sono indottrinati alla dinamica mafiosa attraverso valori, riti e simboli, cresciuti nel mito familiare idealizzando alcune figure che rinforzano la loro futura “vocazione”. L’importanza della famiglia e del forte controllo nel processo educativo all’iniziazione mafiosa oggi si sta cercando di spezzarlo intervenendo subito nella sottrazione dei minori alle famiglie mafiose come quando si riscontrano casi concreti di devianza. È un compito della giustizia minorile che oggi è molto dibattuto e attorno al quale non mancano delle polemiche“ (Chiesa, giovani e ‘ndrangheta in Calabria, Cosenza 2018). Questa “prevenzione” sta dando i suoi frutti, giustificata dall’obiettivo di evitare che chi cresce in tali contesti – dove l’affiliazione e l’arruolamento sono scontati – si possa essere evitare un futuro già compromesso, perché la “ndrangheta si eredita, non si sceglie”.
Il genere di questo film non è nuovo, qualche anno fa una storia simile «Terra dei santi» (2015), con un taglio più femminile girato sempre in Calabria, si basa sul romanzo di Monica Zapelli, «Cielo a metà» che racconta la lotta di un magistrato che cerca di abbattere il muro di omertà nella Locride. Da tempo si prevede questo intervento di “forza” dello Stato, per impedire che in famiglie con cognomi “pesanti”, la trasmissione dei “valori” e della “cultura mafiosa”, trovi un terreno fertile nei figli per la prosecuzione del crimine. Laddove la società e le altre reti sociali non riescono a presentare un’alternativa, questo intervento “violento” che allontana dagli affetti familiari è molto dibattuto. “I minori servono alla “famiglia”, non solo come manovalanza ma anche per perpetuare la riproduzione mafiosa, nonostante escono e frequentano un contesto sociale e culturale, i casi di distacco e di allontanamento dalla “comunità degli affetti” sono rari. Non è altrettanto violenza strapparli dalle famiglie? Quanto incidono la scuola, lo sport, le aule di catechismo, l’oratorio, sulle loro emozioni e sul pensiero che all’interno delle famiglie è totalizzante?” (Chiesa, giovani e ‘ndrangheta). Esistono altre opzioni meno traumatiche e alternative nel mondo esterno di percorsi di liberazione? Come affrontare questo problema affinché i minori possano vivere all’insegna della normalità?
Il film Liberi di scegliere dischiude una realtà raccontata nei libri, nel cinema, accanto e vicino a noi, alimentata dal “silenzio sociale”, dal “mondo accanto”, da una società “permeabile che ha assorbito elementi mafiosi, che vive una forma di determinismo storico e di tragico fatalismo, “senza possibilità di scegliere”.
La conclusione del film è stata ottimistica, la liberazione è passata dal “rinnegamento del padre”, grazie all’azione coraggiosa di un magistrato e di alcuni collaboratori, del rifiuto della “cultura” di ‘ndrangheta. E’ quello che ci si augura avvenga con costanza nella realtà e con un forte e determinante contributo della società e delle istituzioni.