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TAURIANOVA (RC), GIOVEDì 28 MARZO 2024

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Trivelle, domenica si voterà per il referendum Ecco le ragioni del Sì e del No

Trivelle, domenica si voterà per il referendum Ecco le ragioni del Sì e del No
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di Bruno Morgante

Domenica 17 Aprile si voterà per il referendum. Questo è un tentativo di informare il popolo su cosa si dovrà andare a votare, spurgando la propaganda da demagogia, disinformazione, manipolazione dei dati.
La prossima Domenica, il 17 Aprile, si dovrebbe votare per il referendum il cui quesito è l’abrogazione del rinnovo automatico delle concessioni per le piattaforme esistenti e operanti entro le dodici miglia nautiche.
Uso il condizionale in quanto è pendente un ricorso del partito radicale al TAR del Lazio, che chiede la sospensione del voto per la insufficiente informazione, per cui i cittadini non avrebbero avuto la possibilità di farsi un’opinione compiuta su come votare.
Testo del quesito
Volete voi che sia abrogato l’art. 6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, “Norme in materia ambientale”, come sostituito dal comma 239 dell’art. 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208, “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)”, limitatamente alle seguenti parole: “per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale”?

La frase da abrogare in questo caso “per la durata di vita utile del giacimento, ….”, riguarda la durata delle concessioni (i “titoli”) per estrarre idrocarburi.
I titoli di norma sono concessi per trent’anni.
Se venisse abrogata la nuova norma, la compagnia concessionaria potrà chiedere, secondo la vecchia legge, che rientrerebbe in vigore, una prima proroga di dieci anni e altre due di cinque ciascuna, su cui avrebbero voce in capitolo le regioni interessate.
Se vincesse il NO o non partecipasse il 50%+1 dei votanti, in qual caso il referendum fallirebbe, rimarrebbe la proroga automatica fino alla durata di vita utile del giacimento e rimarrebbe in capo al Ministero dello Sviluppo il controllo per il rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia degli impianti.
Sarà il primo referendum abrogativo richiesto da almeno 5 consigli regionali nella storia della Repubblica.
Tutti i precedenti 65 quesiti referendari votati a partire dal 1974 (referendum sul divorzio), furono richiesti previa raccolta di firme da parte dei cittadini.
Le regioni richiedenti il referendum sono state dieci, ridottesi a nove per il ritiro dell’Abbruzzo, e precisamente: Basilicata, Calabria, Campania, Liguria, Marche, Molise, Puglia, Sardegna, Veneto.
Sette di queste regioni sono governate dal centrosinistra, di cui sei nel Sud, e due dal centrodestra.
Salta immediatamente all’occhio, oltre al ritiro della regione Abbruzzo, l’assenza della regione Emilia Romagna, in quanto in questa regione si concentra la maggioranza delle piattaforme attive lungo la costa e l’assenza della Sicilia, con nove piattaforme, di cui 5 per l’estrazione di petrolio.
In Emilia Romagna ben 47 piattaforme sono attive da molti lustri di fronte a Ravenna, Rimini, Riccione, litorale che gode di ben 9 bandiere blu.
Le piattaforme attive operanti entro il limita delle 12 miglia nautiche sono 92, presenti nel medio-alto Adriatico, nel mare Jonio e nel Canale di Sicilia.
Quasi tutte la piattaforme estraggono gas, escluso una piattaforma in Abbruzzo e cinque in Sicilia che estraggono petrolio.
In questi decenni in cui hanno funzionato le piattaforme ci sono stati solo tre lievi incidenti, senza alcun danno per la fauna ittica, per la qualità del mare e per le coste.
Delle regioni richiedenti il referendum solamente Calabria, Marche e Veneto (1 piattaforma) hanno impianti attivi in mare.
Probabilmente il motivo della presenza di altre sei regioni apparentemente non interessate alla questione piattaforme dipende dal fatto che inizialmente i quesiti erano sei ed esprimevano la preoccupazione delle regioni di una possibile invasione di trivelle per ricerche di combustibili fossili lungo tutte le coste italiane, come faceva paventare una interpretazione estensiva della legge cosiddetta”Sblocca Italia”.
Cinque quesiti, probabilmente quelli a cui erano potenzialmente interessate tutte le regioni richiedenti, sono decaduti in quanto il governo, di sua iniziativa ha legiferato in merito, sterilizzandoli.
Inizialmente questo ha fatto passare in sordina la campagna referendaria, che sembrava non avere nessun appeal.
La propaganda è partita quando il premier Renzi, in risposta a una domanda, ha dichiarato che riteneva sbagliato il quesito e che probabilmente non sarebbe andato a votare, anche se rispettava tutte le decisioni dei cittadini.
I due vicesegretari del PD hanno preso una posizione molto più netta e hanno invitato gli iscritti a far fallire il referendum non recandosi a votare.
Subito si è avuta una prima reazione della minoranza dem che ha stigmatizzato la posizione della maggioranza e del premier come deriva antidemocratica e ha chiesto una riunione immediata della direzione.
A questo punto tutte le opposizioni si sono scagliate contro il premier, accusandolo di poca sensibilità democratica, di ferita alla costituzione nella misura in cui invitava i cittadini a non andare a votare.
La campagna referendaria subito si è accesa e si è colorata di politica anche con cadute volgari.
Le regioni promotrici scompaiono da interlocutori legittimi per la campagna referendaria, eccetto Emiliano, presidente della Puglia, che si guadagna la scena con attacchi coloriti al suo segretario Renzi, definito anche “venditore di pentole”.
Ognuno interviene dicendo la sua, spandendo demagogia a piene mani con argomenti quasi sempre non attinenti al quesito referendario.
Oggetto dell’attacco diventa il premier Renzi e si invoca un voto per mandarlo a casa.
Chi ha argomenti seri da portare avanti in appoggio al suo invito di voto, viene oscurato.
Inizia una campagna da ambo le parti molto demagogica, che tende a spaventare il cittadino, ad indebolire il governo, più che a spiegare le ragioni del SI, quelle del NO o degli astensionisti accusati di tradimento della costituzione.
Il NO chiede l’uscita dai combustibili fossili e una scelta a favore delle fonti di energia rinnovabile, sole, vento, onde del mare, fiumi.
Paventano chissà quali sciagure per le nostre coste e fanno girare video con spiagge e uccelli incapaci di volare perché pieni di petrolio, video girati in altre parti del mondo.
Gridano che bisogna salvaguardare il vero oro che ha l’Italia, che è rappresentato dal turismo, messo in pericolo, secondo loro da queste piattaforme, senza badare alla contraddizione che la costa che ha la maggiore concentrazione di piattaforme, come si evidenziava prima, è la costa romagnola, che da sempre vive soprattutto di turismo balneare.
Denunciano inquinamenti alla fauna ittica inquinata.
Rispondono i pescatori di cozze della Romagna, che dichiarano che le cozze raccolte nei pilastri e nei vari collegamenti per costruire le piattaforme sono le migliori cozze presenti sul mercato, tra cui le cozze pelose, garantite dalle ASL, per cui scontano un prezzo più alto delle altre provenienti dalle lagune venete.
Gli ambientalisti pretendono che allo scadere delle concessioni attuali le piattaforme debbano smettere di attingere gas o petrolio dai pozzi ed essere smantellate, senza utilizzare la possibilità di concedere ulteriore proroghe, affinchè il governo sia costretto a puntare alle fonti rinnovabili per soddisfare il fabbisogno energetico del paese.
Si oppone a questa impostazione Emiliano, unico presidente di regione continuamente presente nei media e sui giornali, impegnato nella campagna per il NO, che chiarisce che la vittoria del NO non comporterà lo smantellamento delle piattaforme, in quanto potranno essere concesse proroghe, con un ruolo da protagonista delle regioni, a tutela delle proprie coste.
Accusano il governo di rappresentare la lobby dei petrolieri e di non investire un euro nelle fonti rinnovabili.
Per onore della verità l’Italia è leader europeo per percentuale di energia proveniente da fonti rinnovabili sulla energia totale consumata, per una percentuale pari a quasi il 18% ed ha raggiunto con due anni d’anticipo l’obiettivo previsto all’interno della UE.
L’Italia investe per finanziare le rinnovabili circa 12 miliardi all’anno, pagate dagli utenti con la bolletta elettrica o dai petrolieri che raffinano petrolio.
L’ENEL, società controllata dal Tesoro, è una delle società leader mondiale nel settore per tecnologia e investimenti nella ricerca.
I fautori del SI paventano la perdita di 10.000 posti di lavoro tra lavoro diretto e indotto.
Paventano la mancanza di incasso di royalty e di tasse che i proprietari delle piattaforme versano allo stato.
Come ha chiarito Emiliano sicuramente ci saranno le proroghe non automatiche, per cui non ci sarebbero posti di lavoro a rischio.
Telegiornali e media parlano di referendum sulle trivellazioni, avendo acquisito la denominazione usata dai fautori del NO, contribuendo a generare confusione.
Le trivelle, che si usano in fase di ricerca di bacini di idrocarburi, non c’entrano con il quesito referendario, che si riferisce esclusivamente alle piattaforme esistenti e operanti.
Tra l’altro in Italia il governo Renzi ha proibito per legge, non solo nuovi insediamenti, ma anche le ricerche di nuovi giacimenti entro le 12 miglia nautiche (circa 15 km) dalle nostre coste.
Per quanto mi riguarda, proprio perché sono da sempre un fautore della produzione di energia da fonti rinnovabili, ma cosciente che è un processo che abbisogna ancora di tempo e di ulteriori ricerche e innovazioni, ritengo che è da pazzi prevedere nel breve periodo l’abbandono delle fonti fossili, che per molti anni ancora dovremo utilizzare per coprire il nostro fabbisogno energetico, così come estraniarci dalle ricerche che vengono condotte per fonti alternative, da individuare anche all’interno degli stessi idrocarburi.
E’ interessante prestare attenzione ad un sistema elaborato dal premio nobel Rubbia in un laboratorio tedesco per produrre energia da gas metano senza aumentare le emissioni di CO2 nell’atmosfera.
Si tratta di un metodo per spaccare il metano, detto methan cracking, che divide la molecola di metano in carbonio e idrogeno.
L’idrogeno brucia senza emissioni nocive nell’atmosfera, mentre il carbonio, senza zolfo, viene stoccato per altri usi industriali.
Presto è previsto il passaggio allo sviluppo applicativo del nuovo metodo.
In Italia siamo ricchi di gas, se messi nelle condizioni di poterlo estrarre senza isteriche reazioni di molti nemici della scienza e fautori della “decrescita felice”.
Oggi, assenti dal dibattito le regioni che hanno richiesto il referendum, escluso Emiliano, presidente della Puglia, la lotta è diventata radicale e nessuno ha chiarito agli italiani la vera domanda che pone il referendum.
Il vero quesito del referendum è se siamo d’accordo che la proroga della concessione esistente per l’estrazione di idrocarburi da giacimenti attivi entro le dodici miglia nautiche dalle nostre coste sia automatica e valida fino ad esaurimento del giacimento, fermo rimanendo l’obbligo del ministero dello sviluppo economico di verificare periodicamente la sicurezza ambientale e sul lavoro delle piattaforme, o se vogliamo che, allo scadere della concessione esistente, debbano essere richieste proroghe a norma di legge, con eventuale contrattazione delle condizioni per ottenere la proroga, con un ruolo determinante delle regioni interessate.
Non capisco perché è stato chiamato il popolo a decidere tale questione che attiene a uno scontro di potere decisionale tra stato e regioni e che al cittadino interessa poco, in quanto cinquanta anni (tanti sono 30 della concessioni e 20 di possibili proroghe) superano la vita media dei nostri giacimenti.
Gli astensionisti razionali, da distinguere dai tifosi che votano per bandiera, guardano con fastidio ai pifferai che promettono mondi bucolici o a politici demagoghi che si sono scatenati sulla scena per seminare paure e odio, prendendo in giro il popolo perché invece di aiutarlo a decidere lo vogliono scatenare in una sorta di vandea per raggiungere il loro progetto di potere.
Sono convinti sostenitori della democrazia che si sostanzia, secondo loro, soprattutto attenendosi al confronto sui temi su cui bisogna decidere, per poterlo fare in scienza e coscienza.
Sono accusati di essere antidemocratici perché invitano a far fallire un referendum che ritengono stupido e potenzialmente dannoso, per la demagogia politica e ambientalista che si è scatenata per altri obiettivi, strumentalizzando il referendum.
Gli altri obiettivi possono avere anche una loro importanza, sostengono gli astensionisti, ma bisogna discutere e confrontarsi sugli altri obiettivi quando si è chiamati a discutere di quelli e quindi alle elezioni politiche generali.
Rivendicano il diritto di votare al referendum secondo la loro scelta di far fallire il referendum, voto previsto dalla costituzione che ha messo un quorum per la validità del referendum, mentre non c’è quorum per le elezioni dei rappresentanti del popolo ai vari livelli istituzionali, dove il cittadino ha il diritto-dovere di partecipare al voto, anche per evitare che altri facciano la scelta per suo conto.
Irridono ai catastrofisti invitandoli a vedere la realtà delle nostre coste, specialmente nel mezzogiorno, della qualità dei nostri mari, ridotte in questo modo senza bisogno di presenza di piattaforme, motivo, se ce ne fosse bisogno, per essere razionalmente contrari a dare potere decisionale alle regioni.
Un problema non secondario è che il governo nel decreto anticorruzione ha individuato nella semplificazione delle procedure e nella riduzione di passaggi burocratici il sistema migliore per combattere la corruzione.
Paventano, inoltre che, ove dovesse vincere il NO, ambientalisti, partiti, che si sono impadroniti del referendum, pretenderebbero, oltre alle dimissioni del governo, una interpretazione politica estensiva del significato, quale rifiuto delle fonti fossili per produrre energia e la conseguente chiusura dei pozzi allo scadere delle concessioni, senza possibilità di proroghe.